La prova nella determinazione del reato di stalking ex art. 612 C.p. si realizza nell’accertamento del turbamento dell’equilibrio mentale della vittima del reato in relazione alla condotta posta in essere dal soggetto agente.
E certamente vero che il reato di cui all’articolo 612 bis C.p. è reato di evento e di danno; è altrettanto vero che, com’è ovvio, l’evento deve essere conseguenza della condotta dell’agente.
Tutto ciò premesso, però, non deve confondersi un fatto con la sua prova. La prova di un evento psichico, qual è il turbamento dell’equilibrio mentale di una persona, non può che essere ancorata alla ricerca di fatti sintomatici del turbamento stesso, atteso che non può diversamente scandagliarsi “il foro interno” della persona offesa. Assumono allora importanza tanto le dichiarazioni della predetta persona offesa, quanto le sue condotte, conseguenti e successive all’operato dell’agente, quanto – infine – la condotta stessa di quest’ultimo, che ovviamente va valutata, tanto in astratto (dunque sotto il profilo della sua idoneità a causare l’evento), quanto in concreto, vale a dire con riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui essa si è manifestata.
Come correttamente osserva il ricorrente, le conseguenze della condotta ascritta allo stalker, per quanto previsto dal legislatore, consistono (alternativamente, ma, eventualmente, anche cumulativamente) nel grave e perdurante stato di ansia e paura cagionato nella persona offesa, nel timore di danni a sé smessa o a persona vicina, nel cambiamento delle proprie abitudini di vita, quale conseguenza della condotta dell’agente, vale a dire quale “reazione difensiva” a tale condotta.
Certamente, tale ultima conseguenza è quella che è accettabile con maggiore facilità e sicurezza, in quanto essa si manifesta nel mondo esterno e si concretizza, in ultima analisi, a sua volta, in una condotta.
Se Tizio, che era solito tenere il comportamento A, cambia abitudini e – dopo una certa data e dopo che l’agente lo ha reiteratamente minacciato e/o molestato – tiene il comportamento B, al giudicante, che debba verificare la sussistenza degli estremi del reato di atti persecutori, compete accertare se tale mutamento sia conseguenza della condotta dell’agente. Nel fare ciò, da un lato, non potrà fare a meno di considerare le dichiarazioni della persona offesa, dall’altro, logicamente, dovrà valutare se la “nuova condotta” possa in qualche maniera essere idonea a neutralizzare, a scongiurare, ad evitare quei comportamenti molesti e minacciosi addebitati all’agente.
Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza 14 aprile 2012, n.14391