Il sentimento della gelosia può integrare la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 1, C.p., quale motivo abietto o futile?
La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire di recente che la gelosia può integrare l’aggravante dei motivi abietti o futili, quando sia connotata non solo dall’abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima o un terzo che appaia ad essa legata, ma anche nei casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall’agente come atti di insubordinazione (Cass., Sez. 1, n. 49673 del 01/10/2019; Sez. 5, n. 44319 del 21/05/2019).
Proprio quest’ultima decisione, superando sfumature linguistiche che hanno accompagnato in passato, nella giurisprudenza di legittimità, un non esplicito superamento di posizioni ormai lontane dalla coscienza collettiva, sottolinea espressamente la centralità del principio di autodeterminazione delle persone, correlato al fondamentale valore della dignità umana, che vale a giustificare la connotazione in termini di maggiore gravità delle condotte violente che trovino il loro movente nel senso di appartenenza nutrito dall’imputato nei confronti dell’individuo con il quale ha condiviso una relazione sentimentale.
Tale conclusione si inserisce nella più ampia cornice alla stregua della quale l’accertamento della circostanza aggravante dei futili motivi, dovendo svolgersi con metodo bifasico, richiede la duplice verifica del dato oggettivo, costituito dalla sproporzione tra il reato concretamente realizzato e il motivo che lo ha determinato, e del dato soggettivo, costituito dalla possibilità di connotare detta sproporzione quale espressione di un moto interiore assolutamente ingiustificato, tale da configurare lo stimolo esterno come mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (Cass., Sez. 5, n. 45138 del 27/06/2019).
Ora, razionalmente tali principi hanno trovato applicazione nel caso di specie, in quanto le lesioni, cagionate dall’imputato dopo la fine della relazione con la persona offesa, erano il frutto dello spirito punitivo nutrito nei confronti della donna, considerata come una propria appartenenza: la spinta ad agire, in definitiva, era priva di quella minima consistenza che la coscienza collettiva esige per operare un collegamento logicamente accettabile con l’azione commessa, talché essa appariva assolutamente sproporzionata all’entità del fatto.
Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza 29 luglio 2020, n. 23075