L’art. 270, primo comma, C.p.P., dispone che “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.
L’art. 270 C.p.P. costituisce l’attuazione in via legislativa del bilanciamento di due valori costituzionali fra loro contrastanti: il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e l’interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire in giudizio coloro che delinquono.
Ma muovendo dal rilievo che l’espressione “procedimenti” denota un campo semantico comprensivo della fase pre-processuale delle indagini preliminari, occorre rilevare se l’art. 270, primo comma, C.p.P., possa essere interpretato in un senso più ampio, comportante anche la preclusione dell’utilizzazione delle informazioni raccolte attraverso intercettazioni legittimamente disposte in un determinato procedimento come fonti da cui eventualmente desumere una notitia criminis.
Occorre considerare che l’art. 270, al secondo comma, stabilisce che “ai fini della utilizzazione prevista dal comma 1, i verbali e le registrazioni delle intercettazioni sono depositati presso l’autorità competente per il diverso procedimento”. E, subito dopo, aggiunge: “si applicano le disposizioni dell’articolo 268, commi 6, 7 e 8”.
Ebbene, oltre a sottolineare che il rinvio a queste ultime disposizioni, le quali concernono le garanzie della difesa per l’acquisizione delle intercettazioni degli atti del procedimento, presuppone chiaramente la pendenza di un diverso procedimento all’interno del quale utilizzare le intercettazioni legittimamente disposte in altro procedimento, si può affermare con certezza che la previsione dell’applicazione della procedura stabilita nell’art. 268 ai commi citati ha un senso unicamente nella prospettiva che ai risultati delle intercettazioni telefoniche si attribuisca efficacia probatoria.
E ciò è confermato dal terzo comma, il quale attribuisce al pubblico ministero e ai difensori delle parti “la facoltà di esaminare i verbali e le registrazioni in precedenza depositate nel procedimento in cui le intercettazioni furono autorizzate”.
In altri termini, l’art. 270, visto nell’insieme dei suoi commi, mostra di presupporre che il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni legittimamente disposte in un determinato procedimento debba esser riferito soltanto a processi diversi e all’utilizzabilità degli stessi risultati come elementi di prova.
Su tali basi può concludersi che il divieto disposto dall’art. 270 C.p.P. è estraneo al tema della possibilità di dedurre “notizie di reato” dalle intercettazioni legittimamente disposte nell’ambito di altro procedimento.
La conoscenza di fatti astrattamente qualificabili come illeciti penali che venga acquisita attraverso intercettazioni legittimamente autorizzate o, all’interno del medesimo procedimento, per altri reati, non impone al P.M. l’inizio di un procedimento, ma consente piuttosto che egli proceda ad accertamenti volti ad acquisire nuovi elementi di prova sulla cui base soltanto potrà successivamente proporre l’azione penale.
Tanto più ciò vale in un sistema nel quale si prevede che “il P.M. e la polizia giudiziaria acquisiscono le notizie di reato di propria iniziativa” (art. 330 C.p.P.), e si attribuisce rilevanza pure a eventuali notizie di reato apprese dal pubblico ministero al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni (art. 70 R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 20 D.P.R. 22 settembre 1948, n. 449).
CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA 11-23 LUGLIO 1991 N. 366