La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento, sebbene datata nel tempo, indica le condizioni necessarie per il legittimo esercizio del diritto alla libertà di stampa.
La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è «mezza verità» (o, comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di responsabilità (e, correlativamente, per la più facile possibilità di difesa) che comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso, piuttosto che un fatto vero si, ma incompleto. La verità incompleta (nel senso qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa.
La forma della critica non è civile, non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. E ciò perché soltanto un fatto o un apprezzamento chiaramente esposto favorisce, nella coscienza del giornalista, l’insorgere del senso di responsabilità che deve sempre accompagnare la sua attività e, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate smentite nonché la previsione di ricorrere con successo all’autorità giudiziaria. Proprio per questo ili difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere privo di sanzione. E lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, al fine di sottrarsi alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche senza, peraltro, rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre ad uno dei seguenti subdoli espedienti (nei quali sono da ravvisarsi, in sostanza, altrettante forme di offese indirette): a) il sottinteso sapiente: cioè all’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori per ragioni che possono essere le più varie a seconda dei tempi e dei luoghi, ma che comunque sono sempre ben precise, le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma comunque sempre in senso fortemente più sfavorevole, se non apertamente offensivo — nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti racchiudere determinate parole tra virgolette, all’evidente scopo di far intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che comunque, sono da interpretarsi in ben altro e ben noto senso da quello che avrebbero senza virgolette; b) gli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice sequenza in un testo di proporzioni autonome, non legate, cioè, da alcun esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma comunque sempre in qualche modo negativi per la reputazione) concernenti altre persone estranee ovvero con giudizi (anch’essi ovviamente sempre negativi) apparentemente espressi in forma generale ed astratta, e come tali ineccepibili (come, ad esempio, l’affermazione “il furto è sempre da condannare“) ma che invece per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate; c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli) o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie “neutre” perchè insignificanti o, comunque, di scarsissimo valore sintomatico, al solo scopo di indurre i lettori specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione, (classici, a tal fine sono l’uso del punto esclamativo, anche là ove di solito non viene messo, o la scelta di aggettivi comuni, sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive, come, ad esempio, “notevole“, “impressionante“, “strano“, ” non chiaro“; d) alle vere e proprie insinuazioni, anche se più o meno velate (la più tipica delle quali è certamente quella secondo cui “non si può escludere che…” riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda ugualmente in considerazione a tutto detrimento della reputazione di un determinato soggetto.
Ciò posto, in relazione al legittimo esercizio del diritto alla libertà di stampa, va ricordato che — come ormai la giurisprudenza di legittimità ha più volte avuto occasione di precisare, sia in sede civile che penale — il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) sancito in linea di principio nell’art. 21 Cost, e regolato fondamentalmente nella L. 8 febbraio 1948 n. 47, è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1) utilità sociale dell’informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3) forma «civile» della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, si da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.
Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 18 ottobre 1984, n. 5259