Mobbing o cattivo esercizio del potere direttivo
Preliminarmente occorre affermare che i due concetti di mobbing o cattivo esercizio del potere direttivo non sono sovrapponibili, ma vanno distinti.
E’ noto, infatti, che il mobbing rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate e che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza della Corte di legittimità, esso designa (essendo stato mutuato da una branca dell’etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003 e Cass. 5 novembre 2012, n. 18927).
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass. 21 maggio 2011 n. 12048; Cass. 26/3/2010 n. 7382).
Nel caso di specie, invece, la Corte territoriale ha ritenuto la patologia da cui è risultata affetta la lavoratrice era derivante da scelte operate nell’esercizio del potere direttivo datoriale svolto senza il doveroso rispetto della dignità e della integrità psico-fisica della lavoratrice ed anche in contrasto con il canone generale della correttezza e buona fede. Invero la Corte territoriale ha ritenuto che la modifica dell’orario assegnato alla lavoratrice non abbia avuto una reale giustificazione in ragioni organizzativo- aziendali e che, d’altra parte, non vi sia stata alcuna valida ragione che possa giustificare che, al ritorno dalla malattia, venne “ritagliata” per la lavoratrice una prestazione lavorativa prima inesistente.
Corte di Cassazione Civile, Sez. Lav., sentenza 06 agosto 2014, n. 17698