Obbligo della immediata declaratoria della non imputabilità
Dispositivo dell’art. 26 Codice Processo Penale Minorile
(D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448)
In ogni stato e grado del procedimento il giudice, quando accerta che l’imputato è minore degli anni quattordici, pronuncia, anche di ufficio, sentenza di non luogo a procedere trattandosi di persona non imputabile.
La sentenza prevista dall’art. 26 D.P.R. cit. costituisce il risvolto processuale della disposizione di cui all’art. 97 c.p. che, come noto, stabilisce una presunzione assoluta di incapacità di intendere e di volere nei confronti di chi, al momento del fatto, non abbia compiuto quattordici anni. Un simile epilogo, potendo trovare applicazione “in ogni stato e grado del procedimento” e, dunque, anche anteriormente all’esercizio dell’azione penale, mira a garantire una rapida fuoriuscita del minorenne non imputabile dal circuito penale, in forza dei canoni di minima offensività e destigmatizzazione, che integrano principi cardine dell’intero sistema di giustizia minorile.
Nonostante la ratio dell’istituto in esame sia essenzialmente ispirata al favor minoris, oltre che ad esigenze di economia processuale, il proscioglimento per difetto della capacità di intendere e di volere non è, tuttavia, privo di esiti pregiudizievoli per il suo destinatario.
Alla sua applicazione consegue, infatti, l’iscrizione del relativo provvedimento nel casellario giudiziale, ai sensi del D.P.R. n. 313 del 2002, art. 3, comma 1, lett. f) e art. 5, comma 4, ove permane sino al compimento della maggiore età, nonchè la possibilità di adottare, qualora ne sussistano i requisiti, una misura di sicurezza personale, anche in via provvisoria (D.P.R. n. 448 del 1988, art. 224 c.p. e art. 37 ss.).
E, proprio tali conseguenze negative, che discendono dalla sentenza di non luogo a procedere di cui al D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26, hanno indotto gli interpreti a chiedersi se tale pronuncia debba essere annoverata tra quegli epiloghi che postulano logicamente l’accertamento del fatto e della responsabilità dell’imputato, sebbene la norma non ne faccia espressa menzione.
Sul punto, in giurisprudenza si sono registrati due orientamenti contrapposti.
Una prima impostazione, per la verità minoritaria, prediligendo un’interpretazione letterale della norma in oggetto – che è rubricata “obbligo della immediata declaratoria della non imputabilità” – ritiene che, in presenza di un soggetto privo ex lege della capacità di intendere e di volere in ragione dell’età minore di quattordici anni, si impone al giudice la tempestiva chiusura anticipata del procedimento, attesa l’ultroneità di qualsivoglia indagine in relazione ad un fatto che la legge non consente di perseguire.
Proprio in applicazione di tale principio la Corte di legittimità ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato, minore degli anni quattordici al momento del fatto, volto a censurare il mancato compimento, prima della sentenza di non luogo a procedere, di attività processuali, preordinate a dimostrare la propria estraneità ai fatti oggetto di imputazione o l’eventuale insussistenza del fatto (Sez. 5, n. 49863 del 25/11/2009, nella quale si è ricordato come l’art. 97 c.p. stabilisca una presunzione assoluta di non imputabilità e, quindi, anche di assoluta incapacità processuale che prescinde dall’effettivo riscontro della capacità di intendere e volere in capo al minore infraquattordicenne; in senso assolutamente conforme, si veda la precedente Sez. 1, n. 4391 del 02/11/2000 e la ancora più risalente Sez. 4, n. 1272 del 11/11/1993, in cui si afferma che il difetto di imputabilità del minore degli anni quattordici rientra nella previsione dell’art. 425 c.p.p., anche per il raccordo sistematico tra tale disposizione e il D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, art. 26).
Il principio è stato recentemente ribadito in due arresti della Suprema Corte (Sez. 5, n. 3029 del 27/11/2019 e Sez. 1, n. 16118 del 14/02/2019).
In dette pronunce si è affermata l’inammissibilità, per carenza d’interesse, del ricorso per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità proposto dall’esercente la potestà genitoriale nell’interesse di minore infraquattordicenne per erronea applicazione della legge e vizio di motivazione in ordine all’omesso proscioglimento nel merito. In particolare, Sez. 1, n. 16118 del 14/02/2019, evidenzia che la necessità della ricostruzione del fatto commesso dal minore infraquattordicenne – con pregiudizievole sottoposizione al giudizio – si ricollega esclusivamente alla contestuale applicazione di una misura di sicurezza ed è preclusa quando non ricorrono i presupposti applicativi di questa, come nel caso in cui il reato ipotizzato sia una contravvenzione.
Inoltre, Sez. 5, n. 3029 del 27/11/2019, sottolinea, in via generale, che l’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente. Nel caso di pronuncia di non luogo a procedere per difetto di imputabilità del minore infraquattordicenne, dunque, l’interesse alla impugnazione deve essere escluso in assenza di concreti effetti pregiudizievoli per l’imputato (nella specie, non allegati dal ricorrente).
I due ultimi arresti rilevano pertanto che, da un lato, l’iscrizione nel casellario della sentenza è meramente temporanea e viene cancellata al raggiungimento della maggiore età, ai sensi del D.P.R. 14 novembre del 2002, n. 313, art. 5, comma 4; dall’altro, la necessità di procedere all’accertamento in concreto del fatto costituente reato, nonchè della pericolosità sociale del soggetto, che impone la fissazione dell’udienza preliminare e la notifica del relativo avviso agli esercenti la responsabilità genitoriale, non può postularsi in astratto ma è connessa all’applicazione della misura di sicurezza nei confronti del minore, secondo il combinato disposto dell’art. 224 c.p. e D.P.R. n. 448 del 1988, art. 37.
In sostanza, la tesi in parola fa leva sulla necessità di evitare al minore non imputabile un ingiustificato prolungamento dell’esperienza processuale, sminuendo gli effetti sfavorevoli derivanti dal non luogo a procedere e focalizzando piuttosto l’attenzione sulle conseguenze stigmatizzanti che, più in generale, scaturiscono dal protrarsi nel tempo della vicenda penale. Sul punto, a sostegno della non necessità di condurre in via preventiva l’accertamento teso a verificare l’eventuale insussistenza del fatto o la non attribuibilità dello stesso al minore imputato, la Cassazione sottolinea che “la necessità di ricostruzione del fatto si ricollega esclusivamente alla contestuale applicazione di una misura di sicurezza, mentre l’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale è meramente temporanea e viene cancellata al raggiungimento della maggiore età” (cfr., Sez. 1, n. 16118/2019, cit.). Di conseguenza, il giudice è tenuto a svolgere, anche ex officio, esclusivamente gli accertamenti anagrafici prescritti dall’art. 8 D.P.R. cit., ove sussistano situazioni di incertezza circa il raggiungimento o meno dell’età che costituisce la soglia dell’imputabilità.
Di tenore completamente opposto è un secondo orientamento che, nell’ottica di garantire la massima estensione del diritto di difesa, riconosce come la decisione ex D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26 postula il positivo accertamento della colpevolezza dell’imputato nonchè la puntuale indicazione, nella motivazione del provvedimento, delle ragioni del mancato proscioglimento nel merito. Soltanto una siffatta interpretazione, infatti, è in grado di assicurare la compatibilità della disposizione testè citata rispetto sia alla norma che contempla l’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale, sia all’art. 224 c.p., al quale fa rinvio il D.P.R. n. 448 del 1988, art. 37, comma 2, con riferimento alle misure di sicurezza, la cui adozione non può prescindere dalla preventiva verifica in ordine all’attribuibilità del reato contestato al minore non imputabile ed alla sussistenza della personalità sociale “qualificata” in capo al medesimo.
Tale orientamento è stato espresso da ultimo da Sez. 4, n. 11541 del 30/01/2020, 0., che afferma che il giudice è tenuto a garantire la realizzazione del pieno contraddittorio, assicurando al minore, ancorchè infraquattordicenne e come tale non imputabile, la più ampia partecipazione al processo, al fine di scongiurare qualsiasi effetto pregiudizievole derivante dal suo coinvolgimento in un procedimento penale, ivi compresa, al di là della irrogazione della sanzione penale, l’applicazione di una misura di sicurezza o la mera annotazione della sentenza di proscioglimento sul certificato del casellario penale.
In tal senso, si è affermato come l’interprete non possa non tener conto della possibile ricaduta dei possibili effetti di dette misure, disposte a seguito del proscioglimento per difetto di imputabilità, sul pieno ed incondizionato inserimento sociale del minore, nella delicata fase dello sviluppo della personalità. La tesi propone una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 26 D.P.R. cit., volta a superare la segnalata situazione di profondo contrasto con l’art. 224 c.p., che privilegia la piena esplicazione del diritto di difesa, alla luce degli artt. 3 e 10 Cost., art. 24 Cost., comma 2, artt. 76, 111 e 112 Cost. e, in ambito sovranazionale, dell’art. 40 della Convenzione di New York e l’art. 6 CEDU, nell’interpretazione fornita dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Nella specie, la sentenza Corte EDU, 11 dicembre 2008, ric. n. 4268/04, in tema di salvaguardia della condizione di particolare vulnerabilità del minore nel processo penale, impone allo Stato di organizzare il processo penale a carico del minore, tenendo conto dell’età, del livello di maturità e del grado di sviluppo delle capacità intellettive ed emotive dell’accusato, in modo da consentirgli di comprendere “la natura dell’indagine” ed “il significato di qualsiasi sanzione, nonchè partecipare attivamente al procedimento, esercitando pienamente il diritto alla difesa garantito dall’art. 6 CEDU” (in tal senso, v. Corte EDU, 4 Sezione, 15 giugno 2004, S.C. c. Regno Unito, n. 60958/00, CEDU 2004 IV).
In particolare, la sentenza n. 11541/2020 evidenzia come la formula terminativa di cui al D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26 non può essere considerata ampiamente liberatoria come lo sono quelle previste dall’art. 129 c.p.p., poichè a seguito di essa è possibile l’applicazione dell’art. 224 c.p., e quindi di provvedimenti anche fortemente incisivi sulla libertà personale o, quantomeno, su quella di movimento. In tal senso, si è riconosciuto infatti che, se si propendesse per la tesi opposta, si verrebbe a configurare una sostanziale incompatibilità tra il dettato del D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26 e quello dell’art. 224 c.p., atteso che, da un lato, il giudicante dovrebbe immediatamente dichiarare il non luogo a procedere, una volta effettuato il solo “accertamento anagrafico“, dall’altro, però, dovrebbe essere in grado di conoscere il merito e di “scandagliare” la personalità del minore, allo scopo di valutare la necessità di adottare una misura di sicurezza.
In tal caso, “sembrerebbe permanere nell’ordinamento una irragionevole situazione di contrasto e di stallo, con evidenti implicazioni circa la sospetta costituzionalità dell’una o dell’altra norma o del loro combinato disposto“.
Secondo detto orientamento, pertanto, il giudice che deve provvedere alla declaratoria di non imputabilità del minore infraquattordicenne è tenuto, dunque, a fissare l’udienza preliminare e a darne avviso all’esercente la responsabilità genitoriale. La possibilità per il giudice di dichiarare “de plano” la non imputabilità del minore di anni quattordici, omettendo qualsivoglia accertamento in contraddittorio in ordine alla eventuale insussistenza del fatto o alla non attribuibilità dello stesso al minore imputato, si pone in chiaro contrasto con i richiamati principi di rango costituzionale e sovranazionale.
L’orientamento appare consolidato alla luce dei precedenti arresti conformi di Sez. 5, n. 35189 del 22/06/2011 e, soprattutto, di Sez. 3, n. 45441 del 20/09/2016, che in motivazione ha chiarito che “la previsione contenuta nel D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26, secondo la quale la sentenza di non luogo a procedere può essere adottata “anche d’ufficio”, non esclude l’applicazione dell’art. 31 del medesimo decreto, che impone l’instaurazione del contraddittorio“. In senso sostanzialmente conforme all’indirizzo interpretativo in esame, si pone, inoltre, Sez. 5, n. 55260 del 23/10/2018, che ha affermato che “la sentenza di non luogo a procedere ex art. 26, D.P.R. cit., per difetto di imputabilità del minore, postula l’accertamento, mediante il necessario contraddittorio, in ordine all’eventuale responsabilità dell’imputato e alle ragioni del suo mancato proscioglimento nel merito.” Nel suddetto arresto, la Corte precisa che tale interpretazione dell’art. 26 ne garantisce la compatibilità con il disposto di cui all’art. 224 c.p., che consente l’applicazione di misure di sicurezza al minore non imputabile ritenuto pericoloso, nonchè con l’ulteriore effetto sfavorevole della iscrizione nel casellario giudiziale ex D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, art. 3, comma 1, iscrizione che viene cancellata solo al raggiungimento della maggiore età (conformi: Sez. 3, n. 49603 del 20/09/2016; Sez. 5, n. 24696 del 23/04/2014, che ha ritenuto illegittima la sentenza di non luogo a procedere qualora riguardi un reato perseguibile a querela della quale non sia previamente accertata la sussistenza; ma anche, Sez. 5, n. 18052 del 17/01/2012; Sez. 5, n. 40550 del 23/09/2008; Sez. 5, n. 42507 del 04/11/2008, ove si richiama l’obbligo della motivazione, sia pur implicita, in merito all’insussistenza di elementi conferenti nel senso dell’applicabilità di un proscioglimento nel merito del minore).
Il consolidarsi nel tempo dell’orientamento si rileva da altri arresti della Corte non oggetto di massimazione.
In particolare, Sez. 2, n. 16769 del 10/04/2015, ha affermato che il giudice che intenda provvedere ai sensi del D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26 ha l’obbligo di accertare che l’infraquattordicenne non possa legittimamente aspirare ad un proscioglimento nel merito, in ragione del suo interesse ad una rapida fuoriuscita dal circuito processuale, da realizzarsi con le cadenze, i tempi e, soprattutto, con le garanzie che caratterizzano il processo penale (conformi: Sez. 3, n. 31631 del 07/04/2015; Sez. 2, n. 6583 del 10/11/2009, dep. 2010; Sez. 5, n. 45155 del 30/09/2013; Sez. 6, n. 26286 del 11/04/2013; Sez. 5, n. 7815/2012 del 12/12/2011, dep. 2012).
In definitiva, una pronuncia de piano, sebbene sia animata dall’intento di favorire l’espulsione del minore dal processo in tempi rapidi, al contempo gli impedisce di interloquire al fine di ottenere un epilogo assolutorio pieno, arrecando un vulnus irreparabile non solo al diritto di difesa, ma anche alle esigenze educative e di recupero sociale, che assumono primaria importanza nel rito minorile. Al contrario, la preventiva valutazione, condotta in apposita udienza partecipata, in ordine alla concreta responsabilità penale dell’infraquattordicenne, ove caratterizzata da esito negativo, consentirebbe il ricorso alle formule assolutorie di cui all’art. 425 c.p.p., riespandendosi così le garanzie difensive dell’imputato.
E così, a fronte della dimostrata insussistenza del reato contestato o della non riferibilità dello stesso al minorenne, il non luogo a procedere per difetto di imputabilità sarebbe destinato a cedere il passo a sentenze di proscioglimento più favorevoli, in ossequio al favor innocentiae.
Sul contrasto in parola, si registrano posizioni fortemente divergenti anche in dottrina.
Invero, in base ad un primo orientamento, l’art. 26 D.P.R. cit. pone al pubblico ministero una “preclusione ad ogni accertamento supplementare diretto a conseguire eventuali epiloghi più favorevoli all’imputato“. Il testo della norma, infatti – benchè sarebbe apprezzabile, su un piano dei valori, la tutela del “diritto del minore a non vedersi prosciogliere, solo per effetto della minore età, per un reato insussistente o, comunque, da lui non commesso” – non lascerebbe “margini così ampi” al pubblico ministero, imponendogli l’attivazione del meccanismo di definizione anticipata del procedimento, salvo che ritenga di chiedere l’applicazione di una misura di sicurezza, nel qual caso sarebbe lo stesso art. 224 c.p. ad imporre l’accertamento della commissione del reato.
Altri Autori si pongono, invece, su una posizione opposta: infatti, benchè l’art. 26 si informi ai principi di minima offensività e di destigmatizzazione – vale a dire all’esigenza di dichiarare la superfluità del processo il prima possibile, al fine di evitare inutili effetti di etichettamento del minore – ed a quelli di autoselettività e di deflazione – ovvero alla necessità di escludere dal processo fatti e soggetti penalmente non rilevanti – la pubblica accusa sarebbe comunque tenuta a svolgere ulteriori indagini in ordine alla sussistenza del fatto di reato ed alla responsabilità del minore, poichè dalla declaratoria di cui al D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26 possono scaturire conseguenze negative per il minore, quali l’applicazione di una misura di sicurezza e l’iscrizione nel casellario giudiziale (ai sensi del D.P.R. n. 313 del 2002, art. 3, comma 1, lett. f).
La maggior parte degli studiosi concorda, invece, sulla prevalenza delle cause di proscioglimento più favorevoli all’imputato quando la non colpevolezza risulti accertata: ciò nell’interesse sia morale che giuridico del minore, aspetto fondamentale anche sotto il profilo educativo.
Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come non possa sottostimarsi la rilevanza nel processo penale minorile dell’udienza preliminare (celebrata dinanzi a un organo giurisdizionale che si caratterizza per essere obbligatoriamente collegiale e specializzato), da taluno definita come un vero e proprio “baricentro” e come tale considerazione non possa rimanere fuori dal giudizio de quo.
Invero, come evidenziato dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 1/2015, “l’interesse del minore nel procedimento penale minorile trova adeguata tutela proprio nella particolare composizione del giudice specializzato (magistrati ed esperti), e questa composizione è stata opportunamente prevista anche per il giudice dell’udienza preliminare, formato da un magistrato e da due giudici onorari, un uomo e una donna“. Nonostante il giudice per le indagini preliminari appartenga alla giurisdizione specializzata minorile, la Consulta ha precisato che i due esperti che affiancano il magistrato nell’udienza preliminare assicurano, per la loro specifica professionalità, “un’adeguata considerazione della personalità e delle esigenze educative del minore“, nonchè “contribuiscono anche all’osservanza del principio di minima offensività, che impone di evitare, nell’esercizio della giurisdizione penale, ogni pregiudizio al corretto sviluppo psicofisico del minore e di adottare le opportune cautele per salvaguardare le correlate esigenze educative“.
Si ricorda, a tal proposito, che gli accertamenti sulla personalità ex D.P.R. n. 448 del 1988, art. 9 devono compiersi anche nei confronti dell’autore di reato infraquattordicenne: essi, infatti, sono funzionali non soltanto all’accertamento della capacità di intendere e di volere, ma sono prodromici anche rispetto ad altre decisioni eventualmente da assumere da parte del giudice penale, quali l’adozione di misure di sicurezza ovvero eventuali provvedimenti civili o rieducativi.
La celebrazione dell’udienza preliminare, ai fini della pronuncia di cui al D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26 assolve, quindi, non soltanto all’esigenza di assicurare il contraddittorio e l’effettività del diritto di difesa, ma anche alla funzione educativa e responsabilizzante, cui risulta complessivamente orientato il processo penale minorile. Se, infatti, è vero che, da un lato, il coinvolgimento del minorenne nella vicenda penale rischia di compromettere irrimediabilmente il suo sviluppo e di indurlo a identificarsi in modelli devianti, dall’altro lato, esso può rappresentare un’occasione favorevole di rieducazione, in grado di innescare un processo di rivisitazione critica dell’episodio criminoso.
Nel perseguimento di tale obiettivo, che si impone con particolare intensità qualora sia stata in concreto accertata la responsabilità penale del minore, imputabile o meno, appare necessario garantire una sua consapevole partecipazione e una costante interlocuzione nelle varie fasi procedimentali e processuali che lo vedono protagonista. In quest’ottica, riveste indiscussa rilevanza il ruolo conferito dall’art. 1 D.P.R. cit. al giudice, cui è demandata la delicata funzione di illustrare al minore il significato delle attività processuali svolte in sua presenza e del contenuto e delle ragioni, anche etico-sociali, dei provvedimenti adottati nei suoi confronti, nonchè il principio di adeguatezza, che suggerisce di calibrare ogni decisione sulle specifiche esigenze educative e sulla personalità del minorenne.
Da ultimo, deve osservarsi che l’udienza preliminare rappresenta la sede fisiologicamente deputata a raccogliere l’eventuale consenso del minore alla definizione anticipata del procedimento, secondo quanto previsto dal D.P.R. n. 448 del 1988, art. 32, comma 1. E, alla luce della ben nota pronuncia della Consulta (Corte Cost., 16 maggio 2002, n. 195), la mancanza del consenso validamente espresso dall’imputato preclude al giudice la possibilità di pervenire ad una sentenza di non luogo a procedere che implica un accertamento di responsabilità, quale deve considerarsi la declaratoria per difetto di imputabilità dell’infraquattordicenne.
Corte di Cassazione Sez. II Penale – ordinanza 12 aprile 2022 n. 13993