La pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa prevista dall’art. 13 della Legge n. 47 del 1948 è quella della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a euro 258. Le due pene – detentiva e pecuniaria – sono dunque previste in via cumulativa, il giudice essendo tenuto ad applicarle indefettibilmente entrambe; e ciò a meno che non sussistano, nel caso concreto, circostanze attenuanti giudicate prevalenti o, almeno, equivalenti all’aggravante in esame.
Proprio l’indefettibilità dell’applicazione della pena detentiva, in tutte le ipotesi nelle quali non sussistano – o non possano essere considerate almeno equivalenti – circostanze attenuanti, rende la disposizione censurata incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto tanto dall’art. 21 Cost., quanto dall’art. 10 CEDU.
Invero, a seguito della sentenza n. 150 del 2021 della Corte Costituzionale, l’applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità è consentita solo in presenza «di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo».
Prima dell’intervento della Corte Costituzionale, una pronuncia della Corte di Cassazione si era già espressa nel senso della validità del principio in ogni caso di offesa recata con la stampa o qualsiasi altro mezzo di pubblicità, in particolare tramite internet, anche al di fuori dell’attività giornalistica (Cass., Sez. 5, n. 13993 del 17/02/2021).
Il principio della suindicata sentenza ha anticipato (ricevendo espresso avallo) i contenuti della decisione assunta dalla Consulta all’udienza pubblica del 22 giugno 2021 (sent. n. 150 depositata il 12 luglio 2021 cit.) che – dopo aver dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione dell’art. 13 Legge n. 47 del 1948 «nella sua interezza», per contrasto con gli artt. 21 Cost. e 10 CEDU – ha chiarito che l’abolizione della lex specialis non crea un vuoto di tutela poiché si riespande l’ambito precettivo delle norme generali dettate dall’art. 595, commi secondo e terzo C.p.
La Corte costituzionale si è interrogata, poi, sulla compatibilità costituzionale
del regime sanzionatorio delineato dal citato comma terzo dell’art. 595 C.p. (pena detentiva alternativa a quella pecuniaria), offrendo una risposta positiva, purchè entro rigorosi limiti, che sono riferiti espressamente all’intera gamma delle ipotesi contemplate dalla norma vale a dire ai casi in cui «l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico».
È utile trascrivere i passaggi fondamentali della sentenza n. 150 del 2021, sì da dare atto non solo del percorso argomentativo ma anche dell’ambito interessato dalla decisione:
– «se è vero che la libertà di espressione – in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti – costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona»;
– «aggressioni illegittime a tale diritto compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l’art. 595, terzo comma, C.p. – la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e gli altri siti internet, i social media, e così via -, possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima»;
– «questi pregiudizi debbono essere prevenuti dall’ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati, nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare»;
– «tra questi strumenti non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva, sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica. Si deve infatti ritenere che l’inflizione di una pena detentiva in caso di diffamazione compiuta a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità non sia di per sé incompatibile con le ragioni di tutela della libertà di manifestazione del pensiero nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità»;
– chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di “cane da guardia” della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità “scomode”; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia, combattendo l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione. Con prevedibili conseguenze distorsive anche rispetto agli esiti delle stesse libere competizioni elettorali»;
– «se circoscritta a casi come quelli appena ipotizzati, la previsione astratta e la concreta applicazione di sanzioni detentive non possono, ragionevolmente, produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica, e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione»;
– «la disposizione ora all’esame – l’art. 595, terzo comma, C.p. – deve essere interpretata in maniera conforme a tali premesse. Il potere discrezionale che essa attribuisce al giudice nella scelta tra reclusione (da sei mesi a tre anni) e multa (non inferiore a 516 euro) deve certo essere esercitato tenendo conto dei criteri di commisurazione della pena indicati nell’art. 133 C.p., ma anche – e ancor prima – delle indicazioni derivanti dalla Costituzione e dalla CEDU secondo le coordinate interpretative fornite da questa Corte e dalla Corte EDU»;
– «ne consegue che il giudice penale dovrà optare per l’ipotesi della reclusione soltanto nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, rispetto ai quali la pena detentiva risulti proporzionata, secondo i principi poc’anzi declinati; mentre dovrà limitarsi all’applicazione della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, in tutte le altre ipotesi».
Se ne ricava (cfr. in termini analoghi Cass., Sez. 5, n. 19221 del 20/04/2022) che l’applicazione della pena detentiva — prevista dall’art. 595, comma terzo, C.p. allorché l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (quale è il caso di specie), ovvero in atto pubblico – è subordinata alla verifica della “eccezionale gravità” della condotta, che, come osserva Cass., Sez. 5, n. 28340 del 25/06/202, va individuata nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi d’odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima, compiute nella consapevolezza della oggettiva e dimostrabile falsità dei fatti ad essa addebitati.
Corte di Cassazione Penale Sent. n. 30572 Anno 2022