La pensione di reversibilità al coniuge divorziato trova una propria disciplina giuridica negli artt. 9, commi 2 e 3, e 9 bis (in relazione all’art. 5) della Legge 1 Dicembre 1970, n. 898 e successive modifiche.
In base alla disposizione di cui alla Legge 1 Dicembre 1970, n. 898, art. 9, comma 2 e 3, (come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 13), “In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza“; “qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, … al coniuge nei confronti del quale sia stata pronunciata la sentenza di scioglimento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili e che sia titolare dell’assegno di cui alla Legge n. 898 del 1970, art. 5 spetta il concorso sulla pensione di reversibilità, tenuto conto della durata del rapporto“.
Entrambi gli articoli suindicati si pongono in relazione con l’art. 5 Legge n. 898 del 1970 che stabilisce al comma 6 che: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive“; e al successivo comma 8: “Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico“.
In relazione alla natura giuridica del diritto alla pensione di reversibilità e la interpretazione della norma (L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3) che pone come presupposto per il diritto alla pensione di reversibilità la titolarità dell’assegno di cui all’art. 5, si rilevato l’esistenza di un contrasto negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. In particolare si fa riferimento ad un primo orientamento giurisprudenziale che sottolinea la natura previdenziale del diritto (sentenze Cass., S. U. nn. 159/1998 e 12540/1998) e un secondo orientamento (Cass. Sez. Lav. n. 10458/2002 ; n. 3635/2012, n. 26168/2015 e n. 9054/2016; e Cass. Civ. n. 17018/2003) che pure riconosce la natura previdenziale del diritto alla pensione di reversibilità ma esclude il concorso del coniuge divorziato se la corresponsione dell’assegno non sia attuale in quanto è stata convenuta dalle parti in unica soluzione mediante la dazione di un capitale o un trasferimento patrimoniale.
Con la sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite n. 159 del 12 gennaio 1998, si analizzano tre questioni interpretative nell’applicazione del nuovo testo del terzo comma della L. n. 898 del 1970, art. 9.
La prima questione era relativa alla identificazione della natura del trattamento di reversibilità riservato al coniuge divorziato: se costituisse un diritto nei confronti del coniuge superstite e condividesse sostanzialmente la stessa natura dell’assegno divorzile ovvero se consistesse in un diritto autonomo, se pure concorrente con quello del coniuge superstite al trattamento di reversibilità, e quindi presentasse una natura prettamente previdenziale e una riferibilità soggettiva diretta in capo al coniuge divorziato nei confronti dell’ente previdenziale.
La seconda questione si riferiva alla individuazione del criterio di determinazione della quota da attribuire al coniuge divorziato e in particolare se tale criterio doveva essere quello matematico e automatico, ancorato alla durata del matrimonio, ovvero temperato da altri elementi di giudizio, specificamente quelli utilizzabili ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile, o, altrimenti, se la durata del matrimonio non fosse altro che uno fra gli altri criteri concorrenti e utilizzabili nella liquidazione dell’assegno divorzile.
La terza questione si riferiva infine ai criteri per determinare la durata del rapporto e in particolare se si dovesse prendere a riferimento rigidamente la durata legale del matrimonio ovvero se si dovesse tenere conto della durata effettiva della convivenza tenendo quindi conto di una eventuale convivenza prematrimoniale ed escludendo invece il periodo di separazione precedente al divorzio.
La risposta delle Sezioni Unite a queste tre questioni interpretative fu nel senso di considerare il coniuge divorziato titolare di un autonomo diritto al trattamento di reversibilità, potenzialmente all’intero trattamento, ma limitato quantitativamente dall’omologo diritto spettante al coniuge superstite; di escludere la utilizzabilità di criteri diversi da quello della durata del rapporto; di intendere per durata del rapporto la durata legale del matrimonio e pertanto di escludere la rilevanza, in pregiudizio del coniuge divorziato, dell’eventuale cessazione della convivenza matrimoniale prima della pronuncia di divorzio, o, in favore del coniuge superstite dell’eventuale periodo di convivenza more uxorio con l’ex coniuge che abbia preceduto la stipulazione del nuovo matrimonio.
La sentenza n. 159/1998 delle Sezioni Unite ha avuto seguito nella giurisprudenza di legittimità per quanto concerne l’affermazione della natura previdenziale del trattamento di reversibilità e il riconoscimento della pari dignità del diritto del coniuge divorziato e di quello del coniuge superstite. La giurisprudenza successiva tuttavia ha rivisto la configurazione automatica e predeterminata del diritto e ha superato le risposte date in quella sede dalle Sezioni Unite alla seconda e alla terza questione.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 419 del 20 ottobre 1999, ha fornito l’interpretazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3 compatibile con le disposizioni di cui agli artt. 3 e 38 della Carta fondamentale. Secondo il giudice delle leggi “la pensione di reversibilità realizza la sua funzione solidaristica in una duplice direzione. Nei confronti del coniuge superstite, come forma di ultrattività della solidarietà coniugale, consentendo la prosecuzione del sostentamento prima assicurato dal reddito del coniuge deceduto. Nei confronti dell’ex coniuge, il quale, avendo diritto a ricevere dal titolare diretto della pensione mezzi necessari per il proprio adeguato sostentamento, vede riconosciuta, per un verso, la continuità di questo sostegno e, per altro verso, la conservazione di un diritto, quello alla reversibilità di un trattamento pensionistico geneticamente collegato al periodo in cui sussisteva il rapporto coniugale.
Si tratta, dunque, di un diritto alla pensione di reversibilità, che non è inerente alla semplice qualità di ex coniuge, ma che ha uno dei suoi necessari elementi genetici nella titolarità attuale dell’assegno, la cui attribuzione ha trovato fondamento nell’esigenza di assicurare allo stesso ex coniuge mezzi adeguati (L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6)“.
Secondo la Corte Costituzionale “in presenza di più aventi diritto alla pensione di reversibilità (il coniuge superstite e l’ex coniuge), la ripartizione del suo ammontare tra di essi non può avvenire escludendo che si possa tenere conto, quale possibile correttivo, delle finalità e dei particolari requisiti che, in questo caso, sono alla base del diritto alla reversibilità. Ciò che il criterio esclusivamente matematico della proporzione con la durata del rapporto matrimoniale non consente di fare. Difatti una volta attribuito rilievo, quale condizione per aver titolo alla pensione di reversibilità, alla titolarità dell’assegno, sarebbe incoerente e non risponderebbe al canone della ragionevolezza, nè, per altro verso, alla duplice finalità solidaristica propria di tale trattamento pensionistico, la esclusione della possibilità di attribuire un qualsiasi rilievo alle ragioni di esso perchè il tribunale ne possa tenere in qualche modo conto dovendo stabilire la ripartizione della pensione di reversibilità“.
La giurisprudenza di legittimità ha fatto costante applicazione del criterio enucleato dalla Corte costituzionale in numerose pronunce fra le quali sembra rilevante richiamare quelle che sottolineano la funzione solidaristica del trattamento di reversibilità, diretta alla continuazione della funzione di sostegno economico, assolta a favore dell’ex coniuge e del coniuge convivente, durante la vita del dante causa, rispettivamente con il pagamento dell’assegno di divorzio e con la condivisione dei rispettivi beni economici da parte dei coniugi conviventi (Cass., n. 16093/ 2012; n. 26358/2011; n. 10638/2007; n. 4868/2006; n. 15164/2003).
Deve rimarcarsi che, dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 1999, la giurisprudenza di legittimità ha escluso, in ragione del carattere solidaristico della pensione di reversibilità, che, nella ripartizione dell’assegno, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, il criterio della durata legale dei rispettivi matrimoni comporti automatismi di qualsiasi tipo, dovendo il giudice del merito tener conto di ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al detto trattamento, e, tra questi, in primo luogo, dell’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge (Cass. n. 23379/2004).
Deve ritenersi quindi non più invocabile la sentenza n. 159 delle Sezioni Unite del 1998 laddove identifica il fondamento della pensione di reversibilità nell’apporto alla formazione del patrimonio comune e a quello proprio dell’altro coniuge e nelle aspettative formatesi durante e per effetto del matrimonio.
Alla luce di queste constatazioni, che derivano dall’esame della giurisprudenza successiva alla citata pronuncia delle Sezioni Unite del 1998, il problema dell’interpretazione dell’espressione testuale “titolare dell’assegno” di divorzio, di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3 nel testo in vigore, assume quindi una direzione univoca nel senso di valorizzare il significato della titolarità come condizione che vive e si qualifica nell’attualità (non condividendosi pertanto l’opposto indirizzo ermeneutico segnato dalle uniche due decisioni le quali affermano che la titolarità dell’assegno di divorzio non significa necessariamente corresponsione periodica e attuale dell’assegno: Cass. n. 13108/2010 e n. 16744/2011). Se infatti la finalità del legislatore è quella di sovvenire a una situazione di deficit economico derivante dalla morte dell’avente diritto alla pensione, l’indice per riconoscere l’operatività in concreto di tale finalità è quello della attualità della contribuzione economica venuta a mancare; attualità che si presume per il coniuge superstite e che non può essere attestata che dalla titolarità dell’assegno, intesa come fruizione attuale di una somma periodicamente versata all’ex coniuge come contributo al suo mantenimento. Del resto l’espressione titolarità nell’ambito giuridico presuppone sempre la concreta e attuale fruibilità ed esercitabilità del diritto di cui si è titolari; viceversa, un diritto che è già stato completamente soddisfatto non è più attuale e concretamente fruibile o esercitabile, perchè di esso si è esaurita la titolarità.
Vale il principio di diritto per cui, ai fini del riconoscimento della pensione di riversibilità, in favore del coniuge nei cui confronti è stato dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ai sensi della L. 1 Dicembre 1970, n. 898, art. 9 nel testo modificato dalla L. 6 Marzo 1987, n. 74, art. 13 la titolarità dell’assegno, di cui all’art. 5 della stessa L. 1 Dicembre 1970, n. 898, deve intendersi come titolarità attuale e concretamente fruibile dell’assegno divorzile, al momento della morte dell’ex coniuge, e non già come titolarità astratta del diritto all’assegno divorzile che è stato in precedenza soddisfatto con la corresponsione in un’unica soluzione.
(Cass. civ., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22434)