La disposizione di cui all’art. 232 del Codice Civile stabilisce al primo comma che “Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio“.
Tale norma è a sua volta collegata alla disposizione di cui all’art. 231 del Codice Civile che stabilisce che “Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio“, e nella quale accanto alla presunzione di paternità (salvo azione di disconoscimento) si ribadisce il principio del concepimento (presunzione) durante il matrimonio.
Il secondo comma dell’art. 232 del Codice Civile prevede che la presunzione di concepimento dei figli durante il matrimonio non opera “decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale” dei genitori, o “dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione“. (Cass. Civ. Sez. I, 21 Febbraio 2018, n. 4194). Inoltre occorre ribadire che la riconciliazione fra i coniugi annulla gli effetti propri della separazione, compreso quello previsto dall’art. 232, secondo comma, C.c., ne consegue che riprende ad operare la presunzione di concepimento in costanza di matrimonio di cui all’art. 231, C.c., salvo l’esperibilità dell’azione di disconoscimento.
All’uopo “Ciascuno dei coniugi e i loro eredi possono provare che il figlio, nato dopo i trecento giorni dall’annullamento, dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio, è stato concepito durante il matrimonio. Possono analogamente provare il concepimento durante la convivenza quando il figlio sia nato dopo i trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data di comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente” (art. 234 C.c.). In questa ipotesi si presume che il figlio nato dopo i trecento giorni dall’annullamento, dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio non sia legittimo e si può agire per provare la legittimità della filiazione.
“La filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile, e in mancanza di questo titolo, il possesso continuo dello stato di figlio” (art. 236 C.c.). Sul punto occorre ribadire che “la presunzione di paternità di cui all’art. 231 C.c. non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi sia anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’operatività di detta presunzione e dello status di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento, né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito“. (Cass. n. 9300/2020). In tal senso si prevedono, di seguito, tre azioni a tutela della filiazione.
L’azione di reclamo dello stato di figlio ex art. 239 C.c.: “Qualora si tratti di supposizione di parto o di sostituzione di neonato, il figlio può reclamare uno stato diverso. L’azione di reclamo dello stato di figlio può essere esercitata anche da chi è nato nel matrimonio ma fu iscritto come figlio di ignoti, salvo che sia intervenuta sentenza di adozione. L’azione può inoltre essere esercitata per reclamare uno stato di figlio conforme alla presunzione di paternità da chi è stato riconosciuto in contrasto con tale presunzione e da chi fu iscritto in conformità di altra presunzione di paternità. L’azione può, altresì, essere esercitata per reclamare un diverso stato di figlio quando il precedente è stato comunque rimosso“.
L’azione di contestazione dello stato di figlio ex art. 248 C.c. spetta a chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse. L’azione è imprescrittibile.
L’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio (di cui, ora, all’art. 243 bis C.c. e ss.) può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo. In tal caso opera una presunzione legale, ed è perciò consentito agire per il suo superamento soltanto a soggetti determinati: padre, madre e figlio, imponendosi pure, alle prime due categorie di legittimati, stringenti termini di decadenza (Cass. Civ. Sez. I, 21 Febbraio 2018, n. 4194). :
“L’azione di disconoscimento della paternità da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento“;
“Il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza“;
“L’azione di disconoscimento della paternità può essere proposta dal figlio che ha raggiunto la maggiore età. L’azione è imprescrittibile riguardo al figlio“.
Analoga disposizione si ritrova in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, di cui all’art. 263 C.c., “Il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto o da chiunque vi abbia interesse” imponendo, anche questo caso termini di decadenza, ovvero di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita per l’autore del riconoscimento, e cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita per gli altri legittimati. L’azione è imprescrittibile riguardo al figlio.
Il legislatore ha inoltre previsto un’azione, che se si vuole può anche definirsi “residuale“, ed è quella di cui all’art. 248 C.c., disposizione che prevede, al comma 1, “L’azione di contestazione dello stato di figlio spetta a chi dall’atto di nascita risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse” ed è poi confermato dalla previsione di cui comma 2, ove si dispone che “l’azione è imprescrittibile“. Invero, secondo il risalente orientamento della giurisprudenza di legittimità la norma di cui all’art. 248 C.c., “non è concorrente con quelle dettate in tema di disconoscimento della paternità e non può ad esse derogare, configurando una azione con contenuto residuale, esperibile nelle sole ipotesi in cui non ricorrano altre disposizioni che regolino in modo autonomo azioni di contestazione della legittimità” (cit. Cass. Civ. Sez. I, 21 Febbraio 2018, n. 4194).