Il principio di legalità della pena è fondato, nel nostro ordinamento, su una pluralità di fonti normative.
A livello interno, gli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. costituiscono i due pilastri sui quali poggia il principio di legalità della pena: quest’ultima può essere irrogata solo in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso e deve tendere alla rieducazione del reo, non potendo consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
Nel confrontarsi con il significato di tali previsioni, la Corte costituzionale ha chiarito che «l’art. 25, secondo comma, della Costituzione […] affermando che nessuno può essere punito se non in forza di legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individuazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge», senza che rilevi la soppressione, in sede di formulazione definitiva della norma, della frase «e con le pene da essa stabilite» compiuta, per altri fini, dal Costituente (Corte cost., sent. n. 15 del 1962).
Appare centrale la considerazione che è la previsione legale della pena, secondo la Costituzione, a fondare la stessa potestà punitiva del giudice.
Si tratta di una valorizzazione centrale, perché dimostra l’esistenza di limiti all’esercizio del potere pubblico il cui superamento non può essere tollerato dall’ordinamento per la centralità che la Carta costituzionale assicura ai diritti fondamentali della persona, tra i quali si colloca, il fondamentale diritto di libertà personale garantito dall’art. 13 Cost., in condizioni di uguaglianza per tutti i consociati (art. 3 Cost.)
A livello sovranazionale, sul fondamento dell’art. 7, § 1, secondo periodo, della CEDU («Non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato»), la Corte di Strasburgo ha sottolineato la necessità di garantire una «protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie», chiarendo altresì che la norma in questione «non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a detrimento dell’imputato», ma consacra in via generale il principio di legalità in ordine ai diritti e alle pene, e quello che impone la non applicazione estensiva o analogica della legge penale a detrimento dell’imputato (Corte EDU, GC, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna, § 78).
Il principio di legalità della pena si rinviene, peraltro, anche nell’art. 49, § 1, della Carta di Nizza (il § 3 opera un significativo riferimento al principio della proporzionalità della pena rispetto al reato) e nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale, oltre a prevedere espressamente il canone del nullum crimen, nulla poena sine lege, impone anche l’obbligatoria applicazione al colpevole della pena sopravvenuta più favorevole.
In siffatta cornice, si colloca la giurisprudenza di legittimità che ha tradizionalmente elaborato il principio in forza del quale, nell’ipotesi in cui il giudice abbia irrogato una sanzione superiore ai limiti edittali, ovvero più grave per genere o specie di quella prevista in astratto dalla fattispecie incriminatrice, la Corte di cassazione deve – anche di ufficio – annullare la sentenza impugnata, qualora non possa direttamente provvedere a rideterminare la pena (Cass., Sez. 2, n. 22494 del 25/05/2021, la quale ha sottolineato come si tratti di un potere officioso esercitabile solo in bonam partem, ossia nei casi nei quali l’errore sia avvenuto in danno dell’imputato, posto che la pena favorevole al reo può essere corretta dalla Corte di cassazione solo in presenza di impugnazione del pubblico ministero).
In tal modo, viene delineata una nozione circoscritta di pena illegale che, senza investire i modi del concreto esercizio del potere discrezionale assegnato al giudice di merito (e, pertanto, senza coinvolgere i profili di erronea applicazione dei criteri commisurativi), ha riguardo ai confini che segnano, nel quadro della legalità costituzionale, il fondamento della potestà punitiva, imponendo, rispetto al risultato di tutela dei diritti fondamentali, una coerente lettura del sistema processuale.
Rientra pertanto in tale nozione la sanzione non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero superiore ai limiti previsti dalla legge o ancora più grave per genere o specie di quella individuata in astratto dal legislatore.
Incidentalmente si osserva che la nozione di illegalità della pena qui individuata nella sua dimensione costituzionale ha riguardo allo specifico problema, che il giudice ordinario è chiamato ad affrontare, di garantire, nel processo penale, indipendentemente dal principio devolutivo, il rispetto del fondamento giustificativo dell’esercizio della potestà sanzionatoria. È evidentemente estranea alla riflessione la questione – destinata ad impegnare piuttosto la Corte costituzionale – della rispondenza della pena prevista dal legislatore ai principi ritraibili dalla Carta fondamentale in relazione al dovere di determinare una pena proporzionata da irrogare, in linea generale, tra un minimo e un massimo, di contenere in termini ragionevoli la distanza tra minimo e massimo, di prevedere che il giudice eserciti il suo potere discrezionale in base ai criteri stabiliti dalla legge (per alcune di queste puntualizzazioni, si veda Cass., Sez. U., n. 46653 del 26/06/2015).
Proprio l’immanenza, rispetto alla disciplina processuale, dei valori espressi dalla Carta fondamentale in tema di protezione della libertà personale e di individuazione delle funzioni della pena, rende costituzionalmente imposto l’intervento officioso del giudice, anche in caso di inammissibilità dell’impugnazione, al fine di rimuovere l’applicazione di pene illegali, nel senso sopra circoscritto.
Le Sezioni Unite ritengono che la nozione di pena illegale non possa estendersi sino al punto da includere profili incidenti sul regime applicativo della sanzione, a meno che ciò non comporti la determinazione di una pena estranea all’ordinamento per specie, genere o quantità.
In altri termini, la pena è illegale, ai fini qui rilevanti del rilievo officioso anche in caso di inammissibilità del ricorso, non quando consegua ad una mera erronea applicazione dei criteri di determinazione del trattamento sanzionatorio, alla quale l’ordinamento reagisce approntando i rimedi processuali delle impugnazioni, ma solo quando non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero sia superiore ai limiti previsti dalla legge o sia più grave per genere e specie di quella individuata dal legislatore.
In definitiva, è necessario che la nozione di pena illegale, come si diceva in principio, venga calibrata sulla sua funzione di rappresentare l’altro polo del giudizio di bilanciamento da operare in relazione alle garanzie sottese al giudicato, ossia quale limite estremo di tutela della libertà personale esposta al rischio di un arbitrio che travalichi i limiti del potere sanzionatorio riconosciuto al giudice.
Tale conclusione si impone in quanto «irrogare una sanzione diversa per specie e/o quantità rispetto ai confini edittali impegna il valore costituzionale della legalità della pena di cui all’art. 25 Cost., che resterebbe vulnerato se non si potesse porre rimedio, anche d’ufficio, all’errore del giudice del grado precedente» (Cass., Sez. 2, n. 12991 del 19/02/2013; così anche Sez. 5, n. 44897 del 30/09/2015; Sez. 1, n. 33326 del 14/02/2017; Sez. 1, n. 40896 del 28/03/2017).
Può dunque concludersi nel senso che la pena che non sia prevista, nel genere, nella specie o nella quantità, dall’ordinamento, è una pena che attesta un abuso del potere discrezionale attribuito al giudice, con l’usurpazione dei poteri esclusivi del legislatore.
Il rilievo dell’illegalità della pena, anche ab origine, deve, pertanto, prevalere sul giudicato sostanziale, in tal modo venendosi ad ampliare la casistica, già elaborata dalla giurisprudenza sopra ricordata, delle eccezioni alla regola dell’intangibilità del giudicato.
Le superiori considerazioni rendono necessario confrontarsi con le conclusioni di Sez. U, n. 47766 del 26/05/2015 che, nel solco dei principi affermati da Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, in relazione alle pene accessorie, hanno ribadito che l’illegalità della pena non può essere rilevata ex officio se il ricorso è tardivo, pur essendo deducibile davanti al giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 666 C.p.P.
Per i casi di inammissibilità del ricorso proposto avverso sentenze applicative di pena illegale, Sez. U. n. 47766 del 26/05/2015 hanno ritenuto consentito l’intervento del giudice dell’esecuzione – nell’esercizio dei poteri suppletivi riconosciuti dall’art. 183 disp. att. C.p.P. – solo nel caso in cui l’omissione non sia derivata da un errore valutativo del giudice della cognizione, e solo ove la sanzione da applicare sia determinata per legge, ovvero sia determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata.
Al contrario, siffatto intervento sarebbe precluso ove fosse necessario – come quando si tratti di ricalibrare la sanzione nei termini flessibili emergenti dall’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 – esprimere apprezzamenti discrezionali in ordine alla scelta della specie e della durata della pena, che finirebbero per rendere il giudice della esecuzione tributario di una cognizione non dissimile da quella che caratterizzerebbe il munus del giudice del rinvio a seguito di annullamento, da parte del giudice della legittimità, della pena illegalmente applicata nei gradi di merito.
Le Sezioni U. n. 47766 del 26/05/2015 hanno, pertanto, concluso nel senso che «una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l’intervento del giudice della esecuzione».
Le Sezioni Unite ritengono che quest’ultima puntualizzazione sia da ritenersi ormai superata in ragione degli ampi poteri di intervento attribuiti al giudice dell’esecuzione.
In sostanza, da un lato, va ribadito che il sindacato del giudice dell’esecuzione non investe questioni che riguardino la fase di cognizione, compresi i vizi procedurali denunciabili unicamente con i mezzi d’impugnazione: quelli ordinari, esperibili sino alla conclusione del processo di cognizione; quelli straordinari attivabili dopo l’irrevocabilità del provvedimento conclusivo del giudizio nei casi previsti dalla legge con l’effetto, se fondati ed accolti, di determinare la riapertura del processo nella fase cognitiva (Cass., Sez. U., n. 15498 del 26/11/2020).
Per altro verso, si deve prendere atto che, ferma la distinzione dei presupposti di operatività dei rimedi, il procedimento esecutivo conosce «un’articolata serie di funzioni finalizzate all’attuazione del principio costituzionale dell’adeguatezza della pena nella prospettiva della sua umanizzazione e della rieducazione del condannato», secondo la nitida affermazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., che si accompagna all’attribuzione al giudice di «penetranti strumenti d’intervento, che consentono sostanziali modificazioni del debito punitivo nella sua struttura e nelle concrete modalità del relativo adempimento» (Cass., Sez. 3, n. 13651 del 20/02/2002).
Rispetto a siffatta cornice, saldamente ancorata all’esigenza costituzionalmente imposta di legalità della pena, non risulta convincente, nella sua assolutezza, l’affermazione di Sez. U., n. 47766 del 26/05/2015 per la quale al giudice dell’esecuzione sarebbe preclusa la rimodulazione del trattamento sanzionatorio illegalmente applicato ai reati di competenza del giudice di pace. Il modello sanzionatorio previsto dal legislatore per siffatti reati dal d.lgs. n. 274 del 2000 e gli istituti processuali correlati impongono, infatti, una valutazione contenutistica di tutti i parametri di commisurazione del trattamento sanzionatorio alla luce delle risultanze processuali, destinate ad incidere non soltanto «sulla quantità del trattamento, ma anche sulla specie della sanzione da applicare, tenendo anche conto delle richieste dello stesso imputato, dal momento che il lavoro di pubblica utilità può essere applicato solo su richiesta dell’imputato, a norma dell’art. 54, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000. Ne deriva, pertanto, che una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l’intervento del giudice della esecuzione».
In effetti, il tema dei limiti dei poteri di intervento del giudice dell’esecuzione, rispetto a decisioni ormai irrevocabili, va ricostruito, alla luce degli sviluppi giurisprudenziali, in termini più articolati.
Così, ad es., si è ritenuto – sia pure con riguardo ad una ipotesi di illegalità sopravvenuta, ma con considerazioni suscettibili di essere estese anche all’ipotesi in esame – che, in tema di rideterminazione della pena inflitta con sentenza irrevocabile di condanna per il reato di cui all’art. 73, comma 1, c1.19 .R. 9 ottobre 1990, n. 309, il giudice dell’esecuzione, in applicazione della disciplina più favorevole determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, è vincolato alle statuizioni del giudice della cognizione relative al riconoscimento delle circostanze, al giudizio di comparazione e alla riduzione della pena per il rito, ma non rispetto a quelle concernenti la determinazione della pena base e l’entità della diminuzione per le attenuanti generiche, trattandosi di aspetti che attengono alla commisurazione in concreto della pena rispetto al mutato parametro legale (v., di recente, Cass., Sez. 1, n. 22215 del 10/01/2022). Così pure si è ritenuto precluso al giudice dell’esecuzione, chiamato a rideterminare per le stesse ragioni imposte da Corte cost. n. 40 del 2019, la pena inflitta con sentenza irrevocabile di patteggiamento, di applicare, in assenza di accordo tra le parti, una riduzione per la scelta del rito diversa da quella concordata ed applicata in fase di cognizione (Cass., Sez. 1, n. 21815 del 07/07/2020).
Tuttavia, impregiudicate le irretrattabili conclusioni del giudice della cognizione nell’individuazione dei parametri astratti di riferimento attorno ai quali determinare la pena da applicare, il giudice dell’esecuzione provvede ad una rimodulazione autonoma del trattamento sanzionatorio, potendo persino giungere – il caso è tratto ancora dall’elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi a seguito di Corte cost., sent. n. 40 del 2019 – a quantificare la diminuzione di pena per le concesse circostanze attenuanti generiche in misura proporzionalmente inferiore a quella stabilita in sede di cognizione, atteso che tale giudice è chiamato a rinnovare l’intera valutazione in ordine alla commisurazione della pena attraverso la discrezionale rideterminazione sia della pena-base che della diminuzione per le menzionate attenuanti, quantificando in concreto siffatta diminuzione alla luce del sopravvenuto mutamento della cornice edittale quale nuovo indicatore astratto del disvalore del fatto (Cass., Sez. 1, n. 4085 del 26/11/2019).
Ne discende che, nel rispetto delle regole processuali delineate dal legislatore (ad es., il lavoro di pubblica utilità potrà essere applicato solo su richiesta del destinatario, ai sensi dell’art. 54, comma 1, d.lgs. n. 274 del 2000), non è ravvisabile alcuna ragione che impedisca al giudice dell’esecuzione di provvedere alla rimodulazione del trattamento sanzionatorio illegale, anche se all’esito di valutazioni che investono, prima ancora che la quantificazione, la stessa individuazione di una pena all’interno del catalogo individuato dal citato d.lgs. n. 274 del 2000.
Se, pertanto, deve riconoscersi al giudice dell’esecuzione il potere di intervenire a porre rimedio ai casi di illegalità della pena quali sopra individuati, deve coerentemente riconoscersi a fortiori, nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo, tale potere al giudice della cognizione, al fine di anticipare gli esiti obbligati della fase esecutiva.
In altri termini, occorre prendere atto che l’elaborazione giurisprudenziale sin qua maturata a proposito del rilievo officioso dell’illegalità della pena, sia pure per cause sopravvenute, trova il suo fondamento, nell’incompatibilità con il quadro costituzionale di un sistema processuale che consenta il mantenimento di una penale illegale, nel senso sopra indicato, intesa come sanzione non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero eccedente, per specie e quantità, il limite legale.
Alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, la questione oggetto di rimessione va risolta enunciando il seguente principio di diritto:
«Pur in presenza di un ricorso inammissibile, spetta alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., il potere di rilevare l’illegalità della pena determinata dall’applicazione di sanzione ab origine contraria all’assetto normativo vigente».
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 38809/2022