L’esistenza di un rapporto di amicizia tra la vittima e lo Stalker o “persecutore” risulta incompatibile con il reato di atti persecutori, ex art. 612 bis C.p. Ciò è quanto stabilito dalla giurisprudenza di legittimità in relazione ad una fattispecie in cui tra le parti sussisteva una mera confidenza (riconducibile ad un rapporto di amicizia tra la vittima e lo Stalker), che non conduce ad una modificazione delle abitudini di vita della vittima, costituente uno degli eventi richiesti dalla norma incriminatrice. Così come non sono stati rilevati altri eventi disomogenei, quali un perdurante stato di ansia o un fondato timore per l’incolumità propria o di un congiunto.
Orbene, l’art. 612 bis C.p. contempla un insieme di condotte persecutorie ripetute nel tempo che provocano un danno alla vittima, incidendo sulle proprie abitudini di vita, generando un grave stato di ansia o di paura, o, ancora, provocando timore per la propria incolumità o per quella di una persona cara. Esso è entrato a far parte dell’ordinamento penale italiano mediante il D.L. n. 11 del 2009 che ha introdotto l’art. 612 bis C.p., con il quale si è cercato di dare una risposta sanzionatoria appropriata alle condotte che fino al 2009 venivano inquadrati in altri meno gravi delitti che si erano dimostrati spesso inidonei a garantire una tutela adeguata alle vittime a fronte di condotte illecite caratterizzate da maggiore gravità, sia per la reiterazione delle stesse, sia per i loro effetti negativi sulla sfera privata e familiare delle persone offese.
Il reato di atti persecutori è un reato comune, anche se la casistica in astratto enucleabile mostra che spesso vi è un rapporto di natura affettiva, sentimentale o comunque qualificato che lega il soggetto agente alla vittima, e può, pertanto, essere commesso da chiunque, anche da chi, dunque, non abbia alcun legame di sorta con la vittima, senza presupporre l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche, (Cass., n. 24575/2012).Dalla collocazione nel capo XII tra i delitti contro la persona si evince il bene giuridico tutelato dal reato di atti persecutori che in primo luogo è rappresentato dalla libertà morale, intesa quale facoltà dell’individuo di autodeterminarsi. In secondo luogo la fattispecie incriminatrice mira a tutelare gli ulteriori beni giuridici dell’incolumità individuale e della salute, nonchè, secondo diverse tesi, la tranquillità psichica e la riservatezza dell’individuo, posto che ai fini della configurazione del reato è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità, dell’equilibrio psicologico della vittima.
In altre parole la finalità perseguita dal legislatore del 2009 sarebbe quella di tutelare il soggetto da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure, con il fine di garantire alla personalità dell’individuo l’isolamento da influenze perturbatrici.
Uno degli elementi costitutivi è la reiterazione delle condotte persecutorie idonee, alternativamente, a cagionare nella vittima, uno degli eventi previsti dalla disposizione; si tratta, quindi, di un reato abituale per la cui configurabilità sono sufficienti anche due sole condotte di minaccia e di molestia. E’ inoltre un reato di evento a struttura causale, e non di mera condotta, che si caratterizza per la produzione di un evento di danno. In ordine alle conseguenze causate alla vittima dalle condotte persecutorie, quanto “al perdurante grave stato di ansia o di paura“, l’orientamento della giurisprudenza ritiene che, ai fini della sussistenza del reato de quo, non è necessario l’accertamento di uno stato patologico, essendo sufficiente che gli atti persecutori “abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima“, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 bis C.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni di cui all’art. 582 C.p. Quanto “al fondato timore per l’incolumità“, la giurisprudenza ha chiarito che ogni condotta, minacciosa o aggressiva, anche laddove rivolta verso cose e non verso la persona, può integrare il reato di atti persecutori, a patto che, per le modalità di attuazione e la cadenza temporale in cui si è sviluppata, sia idonea a cagionare concretamente uno dei tre eventi richiesti, alternativamente, dalla fattispecie incriminatrice.
Per quanto concerne, infine, il riferimento all’alterazione delle “proprie abitudini di vita“, deve intendersi, il complesso delle abitudini che normalmente una persona tiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretto a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria. Ulteriore elemento costitutivo della fattispecie è rappresentato dal dolo generico, consistente nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia descritte dalla norma con la consapevolezza della loro idoneità a produrre taluno degli eventi parimenti descritti nella stessa; non è tuttavia necessaria una rappresentazione anticipata del risultato finale, essendo sufficiente la coscienza e la volontà delle singole condotte con la consapevolezza che ognuna di esse andrà ad aggiungersi alle precedenti formando un insieme di comportamenti offensivi.
Per quanto attiene, infine, alla prova dell’evento, essa non può che essere ancorata ad elementi sintomatici del turbamento psicologico della vittima, e pertanto assumono importanza sia le dichiarazione della stessa vittima del reato, sia i comportamenti conseguenti e successivi alla condotta posta in essere dall’agente e anche da quest’ultima, considerate sia in astratto che in concreto con riferimento alle effettive condizioni sia di luogo che di tempo in cui è stata consumata.
In altre parole, l’effetto destabilizzante deve risultare in qualche modo oggettivamente rilevabile, e non rimanere confinato nella mera percezione soggettiva della vittima del reato.
Corte di Cassazione, sentenza n. 36621/2019