Rettificazione di attribuzione di sesso

Rettificazione di attribuzione di sesso Principio di colpevolezza Ignoranza dell'età della persona offesa infondatezza della notizia di reato La colpevolezza Furti minori procedura penale minorile Fase delle indagini preliminari Principio di presunzione di innocenza Domini Principio di determinatezza edifici in stato di abbandono Invasione La moglie adultera Offesa Pene per la diffamazione Conoscenza Diffusione del proprio Surrogazione di Deroghe al bilanciamento delle circostanze Il reato di plagio Verbale di conciliazione giudiziale Diversa qualificazione del fatto OPG Sanzione accessoria della revoca della patente del custode Pignorabilità dei redditi da lavoro Avviso orale rafforzato Gravita della diffamazione Reddito di inclusione Abuso di ufficio Cognome del figlio Modifica dell’originaria imputazione Messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi Responsabilità civile dei magistrati Risarcimento del danno Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale Esercizio del commercio in aree di valore culturale Codice dei beni culturali Limiti al diritto di manifestare liberamente La libertà di manifestazione del pensiero La tutela dei beni culturali Prostituzione volontaria Immobili ed aree di notevole interesse pubblico Reddito di cittadinanza Diffamazione a mezzo stampa giudizio abbreviato e immediato Controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni Libertà e la segretezza della corrispondenza violenza sessuale di gruppoRettificazione di attribuzione di sesso

Legge 14 aprile 1982, n. 164

(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso)

Tale Legge all’art. 1 comma 1 prevede che «La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».

La disposizione in esame costituisce l’approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU).

Come rilevato, infatti, dalla Corte nella sentenza n. 161 del 1985, la legge n. 164 del 1982 accoglie «un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, nel senso che ai fini di una tale identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero “naturalmente” evolutisi, sia pure con l’ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale. Presupposto della normativa impugnata è, dunque, la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando ‒ poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa, ma quantitativa ‒ il o i fattori dominanti […]. La legge n. 164 del 1982 si colloca, dunque, nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale».

Tale portata generale e fortemente innovativa dell’intervento legislativo in esame emerge anche dalla formulazione letterale dell’art. 1, oggetto di censura, il quale stabilisce i presupposti per la rettificazione anagrafica del sesso, individuandoli nelle «intervenute modificazioni dei […] caratteri sessuali». Viene, quindi, lasciato all’interprete il compito di definire il perimetro di tali modificazioni e, per quanto qui rileva, delle modalità attraverso le quali realizzarle.

Interpretata alla luce dei diritti della persona ‒ ai quali il legislatore italiano, con l’intervento legislativo in esame, ha voluto fornire riconoscimento e garanzia − la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali.

È questa la strada già indicata nella sentenza n. 161 del 1985, laddove si afferma che la disposizione in esame «riguarda tutte le ipotesi di rettificazione giudiziale dell’attribuzione di sesso, in quanto accertato diverso da quello enunciato nell’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali dell’interessato, senza, peraltro, che il disposto in esame prenda in considerazione il modo in cui le modificazioni medesime si sono verificate, se naturalmente ovvero a seguito di intervento medico-chirurgico».

L’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un’impostazione che − in coerenza con supremi valori costituzionali − rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere. L’ampiezza del dato letterale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 e la mancanza di rigide griglie normative sulla tipologia dei trattamenti rispondono all’irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive.

Tale impostazione è stata fatta propria anche dalla recente giurisprudenza di legittimità. Nella sentenza del 20 luglio 2015, n. 15138, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha affermato, infatti, che la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali non può che essere il risultato di «un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso». Il ricorso alla chirurgia costituisce uno dei possibili percorsi volti all’adeguamento dell’immagine esteriore alla propria identità personale, come percepita dal soggetto. D’altra parte, sottolinea la Corte di cassazione, «La complessità del percorso, in quanto sostenuto da una pluralità di presidi medici […] e psicologici mette ulteriormente in luce l’appartenenza del diritto in questione al nucleo costitutivo dello sviluppo della personalità individuale e sociale, in modo da consentire un adeguato bilanciamento con l’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche».

Rimane così ineludibile un rigoroso accertamento giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento è avvenuto e del suo carattere definitivo. Rispetto ad esso il trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona.

In questa prospettiva va letto anche il riferimento, contenuto nell’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011, alla eventualità («Quando risulta necessario») del trattamento medico-chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali. In tale disposizione, infatti, lo stesso legislatore ribadisce, a distanza di quasi trenta anni dall’introduzione della legge n. 164 del 1982, di volere lasciare all’apprezzamento del giudice, nell’ambito del procedimento di autorizzazione all’intervento chirurgico, l’effettiva necessità dello stesso, in relazione alle specificità del caso concreto.

Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta, quindi, autorizzabile in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica.

La prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione – come prospettato dal rimettente −, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico.

Il percorso ermeneutico sopra evidenziato riconosce, quindi, alla disposizione in esame il ruolo di garanzia del diritto all’identità di genere, come espressione del diritto all’identità personale (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU) e, al tempo stesso, di strumento per la piena realizzazione del diritto, dotato anch’esso di copertura costituzionale, alla salute.

CORTE COSTITUZIONALE sentenza n. 221 del 2015

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