Nell’ambito della giurisprudenza di legittimità e di merito i momenti di avvicinamento o di riavvicinamento della vittima all’imputato, nel reato di atti persecutori ex art. 612 bis C.p. è ritenuto irrilevante al fine della sussistenza del reato contestato.
Nelle più frequenti ipotesi che realizzano il reato di cui all’art. 612-bis C.p., i rapporti tra chi agisce con la condotta persecutoria e chi la subisce si caratterizzano per complessità sentimentale e relazionale, ovvero sovente si radicano su strutture di legame familiare che, soprattutto quando vi siano figli minori, invitano a riallacciare una sorta di vicinanza.
In ogni caso, non potendo aver rilievo, ai fini della configurabilità del reato, il movente che spinga la vittima a determinarsi a ricucire, sia pur per brevi periodi o singoli momenti, il rapporto con il suo persecutore, ciò che conta è l’oggettiva e complessiva idoneità della condotta a generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice (Cass., Sez. 5, n. 54920 del 8/6/2016), idoneità valutata e dedotta anche dalla (sola) natura dei comportamenti psicologicamente destabilizzanti tenuti dall’agente ai danni della persona offesa.
Quanto alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, deve ribadirsi che, nel delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale di evento, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa, potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (Cass., Sez. 5, n. 43085 del 24/9/2015; Sez. 5, n. 18999 del 19/2/2014).
Ed invero più volte la Corte di legittimità ha evidenziato come nell’ipotesi di atti persecutori commessi nei confronti della ex convivente, l’attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all’interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore (Cass., Sez. 5, n. 5313 del 16/09/2014; Sez. 6, n. 31309 del 13/5/2015) atteso che l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Cass., Sez. 6, n. 31309 del 13/05/2015).
Il temporaneo od episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore neppure può ritenersi che interrompa l’abitualità del reato ovvero mini la continuità delle condotte persecutorie, poiché l’ambivalenza dei sentimenti nutriti dalla prima nei confronti del secondo, ovvero una ripresa temporanea od episodica dei loro rapporti da qualsiasi motivo sia stata dettata, non rende di per sé irrilevante penalmente e “coperta” per il futuro la condotta persecutoria che si continui a commettere, né tantomeno evidenzia l’insussistenza dello stato di paura o di ansia della vittima rispetto al comportamento dell’autore della condotta.
Corte di Cassazione n. 46165/2019