La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione se l’epiteto “sbirro“, possa ritenersi offensivo dell’onore e della reputazione dei pubblici ufficiali ed integrare il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale di cui all’art. 341-bis C.p.
Può infatti convenirsi che il termine “sbirro“, derivante dal termine tardo latino birrus, rosso (con riferimento al colore del mantello con cappuccio che le guardie dei comuni, delle repubbliche e delle signorie erano solite indossare in epoca tardo medievale e rinascimentale), sia oggi comunemente utilizzato in senso spregiativo per indicare i poliziotti o, più in generale, gli esponenti delle forze dell’ordine. Si tratta di una parola che, anche nella società contemporanea – nella quale è ormai abituale l’utilizzo nel linguaggio corrente, finanche nei mass media, di termini rozzi, volgari ed offensivi -, risulta obbiettivamente connotata da una valenza denigratoria, laddove evoca il ricorso a metodi sbrigativi, all’uso della forza e dunque all’abuso dei poteri riconosciuti agli “sbirri” in epoca medioevale e rinascimentale, in quanto “braccio armato” dei signori di turno al potere.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ritiene che il senso della frase contenente il vocabolo incriminato, valutata in modo oggettivo – tenendo conto della sintassi della proposizione e dunque della successione delle parole-, non è quello di bollare con un termine dispregiativo la veste dei Carabinieri o le modalità dei loro operato, bensì solo di protestare dinanzi alle persone presenti in occasione dell’arrivo sul posto dei pubblici ufficiali, spendendo un epiteto negativo, comune nel linguaggio corrente.
In linea generale, va evidenziato come il legislatore del 2009, nel reintrodurre la fattispecie dell’oltraggio a pubblico ufficiale, abbia previsto, diversamente dalla incriminazione abrogata con la legge n. 205/1999, che l’offesa sia connotata dal requisito della pubblicità, e cioè avvenga in un luogo pubblico ovvero aperto al pubblico ed in presenza di più persone. L’offesa al pubblico ufficiale non è tipizzata: il delitto è a forma libera ed è integrato da una qualunque manifestazione offensiva, attiva o omissiva, esplicita o implicita, anche violenta o minacciosa, che rivesta valenza lesiva del prestigio del pubblico ufficiale. In caso di oltraggio commesso rivolgendo una frase al pubblico ufficiale, le espressioni utilizzate devono essere connotate da un’obbiettiva idoneità offensiva e, pertanto, essere tali da recare nocumento a quella particolare forma di decoro e di rispetto che deve circondare quanti esercitano una pubblica funzione.
Secondo i principi fissati da questo giudice di legittimità, ai fini della valutazione in punto di idoneità offensiva delle espressioni utilizzate nei confronti del pubblico ufficiale, non ci deve limitare a valutare il mero significato obiettivo delle parole, ma si deve tenere conto anche dei criteri etico sociali comunemente condivisi e, soprattutto, della evoluzione del linguaggio nella società. Il che peraltro non significa che l’obiettiva capacità offensiva delle parole possa ritenersi elisa dalla facilità con cui nella società contemporanea vengono abitualmente usate espressioni volgari (Cass. Sez. 6, n. 11396 del 18/10/1994) o dal fatto che una data locuzione ricorra frequentemente nel linguaggio comune, potendo questa integrare il reato allorché sia inserita in un contesto che esprima, senza possibilità di equivoci, disprezzo e disistima per le funzioni del pubblico ufficiale (Cass. Sez. 6, n. 413 del 29/11/1988).
Sebbene non sia previsto dall’art. 341-bis C.p.P. – mentre l’ipotesi previgente lo richiedeva espressis verbis -, l’offesa deve avvenire anche in presenza del pubblico ufficiale, requisito che si desume, seppure implicitamente, dalla previsione che la condotta oltraggiosa deve avvenire “mentre” il pubblico ufficiale che riceva l’offesa “compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni“, contemporaneità che resterebbe priva dì significato ove l’offesa perseguita non fosse immediatamente percepita dal pubblico ufficiale intento a svolgere l’attività d’ufficio.
È ovviamente richiesta la prova del nesso funzionale, e cioè che l’offesa, non solo sia posta in essere mentre il soggetto passivo sta compiendo un atto del suo ufficio, ma sia strettamente connessa all’esercizio delle funzioni e, dunque, abbia la propria scaturigine nell’atto d’ufficio che il pubblico ufficiale sta ponendo in essere. Il reato di cui all’art. 341-bis C.p. sanziona infatti non una qualunque critica anche accesa verso i pubblici ufficiali mediante l’articolazione di frasi dal contenuto denigratorio, bensì solo e soltanto la condotta ingiuriosa che – in quanto connotata dal requisito della pubblicità, dalla presenza dell’offeso pubblico ufficiale e soprattutto da una relazione diretta rispetto all’espletamento della pubblica funzione – sia tale da minare la dignità sociale del pubblico ufficiale e, attraverso di esso, la considerazione della pubblica amministrazione che impersonifica in quel momento.
Sintetizzando, il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale può ritenersi integrato quando siano rivolte al destinatario delle parole o frasi volgari ed offensive, sebbene di uso corrente nel linguaggio usato nella società moderna, che assumano una valenza obiettivamente denigratoria di colui il quale esercita la pubblica funzione e non costituiscano espressione di mera critica, anche accesa, o di villania, e che siano correlate alla funzione pubblica del soggetto passivo, così da incidere sul consenso che la P.A. deve avere nella società.
Corte di Cassazione, Sez. VI, 8 marzo 2015, n. 25903