La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente il concorso di reati, in particolare tra il reato di sequestro di persona (ex art. 605 C.p.) e il reato di violenza sessuale (ex art. 609-bis C.p.) nell’ottica dell’assorbimento del primo reato nel secondo.
Nel caso di specie l’imputato, prima di rendersi protagonista degli approcci sessuali in danno alla vittima, …., la convocava nel suo ufficio, chiudendo la porta a chiave, in modo impedire alla persona offesa di allontanarsi dalla stanza.
In tal senso si ritiene che il reato di sequestro di persona (ex art. 605 C.p.) contestato all’imputato deve ritenersi assorbito nel reato di violenza sessuale (ex art. 609-bis C.p.).
Ed invero, secondo la linea difensiva avallata anche dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, la condotta attribuita all’imputato di chiusura a chiave della porta dell’ufficio con due mandate non aveva una rilevanza autonoma, in quanto immediatamente seguita dalle asserite violenze sessuali, realizzate dopo la chiusura della porta. Stante la contemporaneità delle condotte, doveva concludersi che il sequestro di persona fosse assorbito nella successiva condotta ex art. 609 bis C.p.
Orbene, nel caso di specie il comportamento dell’imputato, per quanto astrattamente idoneo a integrare la fattispecie di cui all’art. 605 C.p., stante l’avvenuta privazione della libertà subita dalla vittima, risulta tuttavia destinato a essere assorbito nella successiva e più grave condotta di violenza sessuale, dovendosi al riguardo richiamare la condivisa affermazione della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., Sez. III, n. 15068 del 12/03/2009), secondo cui, in tema di concorso di reati, il delitto di sequestro di persona è assorbito in quello di violenza sessuale, quando la privazione della libertà personale della vittima si protrae per il tempo strettamente necessario a commettere l’abuso sessuale, come avvenuto nel caso di specie, stante la sostanziale concomitanza tra sequestro e abusi sessuali.
(Corte di Cassazione, Sez. III, n. 38014/2019)