Ricorre l’ipotesi delittuosa di favoreggiamento, reclutamento, induzione e sfruttamento dell’attività di prostituzione nei confronti della dipendente, impiegata come massaggiatrice nel centro massaggi?
Nel caso di specie tale attività di massaggio era certamente realizzata dalla dipendente del centro massaggio, sebbene non fosse l’unica e sebbene il massaggio tradizionale, a richiesta del cliente di turno, potesse essere concluso, con un “extra” di natura economica, con una prestazione sessuale. (Cass. Sez. III, n. 2918/2020).
La Legge 20 Febbraio 1958, n. 75, art. 4, n. 5, (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), meglio nota come Legge Merlin, prevede il raddoppio della pena stabilita dall’art. 4, stessa legge, “5) se il fatto è commesso ai danni di persone aventi rapporti di servizio domestico o d’impiego“. Ovvero ai fini della configurazione dell’aggravante de quo si richiede o meno la costrizione dell’autore del danno rispetto all’esercente l’attività di meretricio, quale persona offesa (?).
Secondo la giurisprudenza di legittimità l’aggravante suindicata sussiste ogni qualvolta l’attività di sfruttamento della prostituzione viene realizzata nei confronti di persone aventi rapporti di servizio domestico o d’impiego (e quindi comunque “ai danni“) di una dipendente, risultando del tutto irrilevante che quest’ultima non sia stata costretta a prostituirsi e che abbia un interesse economico a svolgere quell’attività.(Cass. Sez. III, n. 2918/2020). La volontà di autodeterminazione della donna nel compimento di atti sessuali non è suscettibile di formare oggetto di contrattazioni o di atti di disposizione strumentali alla percezione di un’utilità patrimoniale.
La Legge n. 75 del 1958, art. 3, che sanziona l’attività di favoreggiamento, reclutamento, induzione e sfruttamento della prostituzione, e la Legge n. 75 del 1958, art. 4, n. 5, che statuisce che la pena è raddoppiata se il fatto è commesso “ai danni” di una persona avente rapporto d’impiego con l’autore del reato (cioè con chi ha sfruttato la sua attività di meretricio o con chi ha favorito la sua attività di meretricio o l’ha indotta a prostituirsi, etc.), devono infatti essere interpretati tenendo conto della ratio della normativa penale che tutela la libertà di autodeterminazione sessuale della persona (per brevità, la c.d. libertà sessuale), che, come chiarito del resto recentemente dalla stessa Corte costituzionale (sentenza 7 giugno 2019, n. 141), pur rientrando nel catalogo dei diritti inviolabili evocati dall’art. 2 Cost., non consente di ritenere che la prostituzione volontaria partecipi della natura di diritto inviolabile, quale forma di estrinsecazione della libertà di autodeterminazione sessuale, in quanto l’offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma costituisce una particolare forma di attività economica, essendo la sessualità dell’individuo, in questo caso, nient’altro che un mezzo per conseguire un profitto.
Del resto, l’interesse tutelato dalla norma penale non è costituito né dalla pubblica morale né dalla libertà morale di chi esercita il meretricio, ma piuttosto dalla dignità che, anche nello svolgimento dell’attività sessuale, è propria di ogni persona e per la cui salvaguardia non valgono né possono valere ogni forma di contrattazione o di atti di disposizione i quali abbiano una rilevanza patrimoniale o siano comunque suscettibili di dar luogo a vantaggi patrimoniali in capo a chi ne approfitti (conforme, Cass., Sez. 3, n. 5768 del 19/07/2017).
Deve invero rilevarsi che il soggetto la cui prostituzione è sfruttata da altri è, per definizione, persona offesa e soggetto danneggiato dal reato. Consegue che il reato di sfruttamento della prostituzione è commesso “ai danni” della persona il cui meretricio si sfrutta, nonostante tra sfruttatore e sfruttato vi sia un accordo, quand’anche la vittima goda di benefici.
L’espressione “ai danni” (contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4 nn. 2, 5, 7 e 7 bis) deve infatti intendersi equivalente all’espressione “nei confronti” o “nei riguardi“. In tal modo la circostanza di cui all’art. 4, n. 5, in questione va intesa come un’aggravante che opera, tra l’altro, nel caso in cui l’attività di sfruttamento della prostituzione è effettuata nei confronti di un dipendente che goda di benefici da quella attività.
Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto:
La locuzione “ai danni” presente nella L. 20 febbraio 1958, n 75, art. 4, ai fini della configurabilità delle circostanze aggravanti (e contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4, nn. 2, 5, 7 e 7 bis), non sta ad indicare un danno concreto, patrimoniale o anche morale, ma intende esprimere l’offesa (oggetto generico), che assume carattere di maggiore gravità quando il fatto è commesso “ai danni” di persona in istato di infermità o minorazione psichica, naturale o provocata (n. 2), di persone aventi rapporti di servizio domestico o d’impiego (n. 5), di più persone (n. 7) o di una persona tossicodipendente (n. 7-bis): quella espressione, cioè, equivale a ‘in confronto di- (v., in senso conforme, nella più remota giurisprudenza, la condivisibile Cass., Sez. 3, n. 125 del 25/01/1967). (Cass. Sez. III, n. 2918/2020).