Stato di abbandono e dichiarazione di adottabilità del minore
Lo stato di abbandono è “presupposto imprescindibile per la dichiarazione dello stato di adottabilità“, ai sensi della L. n. 184 del 1983, artt. 8 e 15.
Sul piano normativo, invero, le disposizioni della L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8, esprimono l’esigenza che l’adozione del minore, recidendo ogni legame con la famiglia di origine, costituisca una misura eccezionale (una “extrema ratio“) cui è possibile ricorrere, non già per consentirgli di essere accolto in un contesto più favorevole, così sottraendolo alle cure dei suoi genitori biologici, ma solo quando si siano dimostrate impraticabili le altre misure, positive e negative, anche di carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento con i genitori biologici, ai fini della tutela del superiore interesse del figlio. Il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore è consentito, pertanto, solo in presenza di “fatti gravi“, indicativi, in modo certo, dello stato di abbandono, morale e materiale, che devono essere “specificamente dimostrati in concreto“, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale, seppure espressi da esperti della materia, non basati su “precisi elementi fattuali“, idonei a dimostrare un reale pregiudizio per il figlio e di cui il giudice di merito deve dare conto.
Ai fini dell’accertamento dello stato di abbandono quale presupposto della dichiarazione di adottabilità, non basta, pertanto, che risultino insufficienze o malattie mentali, anche permanenti, o comportamenti patologici dei genitori, essendo necessario accertare la capacità genitoriale in concreto di ciascuno di loro, a tal fine verificando l’esistenza di comportamenti pregiudizievoli per la crescita equilibrata e serena dei figli e tenendo conto della positiva volontà dei genitori di recupero del rapporto con essi (Cass. 14/04/2016, n. 7391).
Lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità ricorre, quindi, nelle sole ipotesi nelle quali entrambi i genitori non siano in grado di assicurare al minore quel minimo di cure materiali, calore affettivo, aiuto psicologico indispensabili per lo sviluppo e la formazione della sua personalità e la situazione non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio, tale essendo quella inidonea per la sua durata a pregiudicare il corretto sviluppo psicofisico del minore (Cass., 28/03/2002, n. 4503; Cass., 28/04/2008, n. 10809; Cass., 21/06/2018, n. 16357; Cass., 23/04/2019, n. 11171). Il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, considerata l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è – per vero – espressamente tutelato dalla L. n. 184 del 1983, art. 1. Ne consegue che il giudice di merito deve, prioritariamente, tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità (Cass., 27/09/2017, n. 22589; Cass., 26/03/2015, n. 6137).
La normativa Europea, del resto, fornisce indicazioni molto chiare in tal senso. L’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“Rispetto della vita privata e della vita familiare“) stabilisce che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (…)“. Del pari, l’art. 8 della CEDU (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare“) dispone che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (…)“. Ed, al riguardo, la giurisprudenza sovranazionale si è espressa nel senso che l’accertamento giudiziale in ordine alla capacità genitoriale deve tendere a risultati quanto più possibile “certi” in ordine all’eventuale incapacità dei genitori, nell’interesse superiore del minore a vivere nella famiglia di origine. Si è affermato, altresì, che gli Stati membri devono attivare ogni loro risorsa per consentire al minore di vivere preferibilmente nella sua famiglia di origine (Corte EDU, 17/04/2021, A.I. c. Italia; Corte EDU, 12/08/2020, E.C. c. Italia; Corte EDU, 10/09/2019, Strand Lobben e altri c. Norvegia; Corte EDU, 21 gennaio 2014, Zhou c/Italia; Corte EDU, 13 ottobre 2015, S. H. c/Italia).
Nella prospettiva della conservazione dei rapporti con la famiglia di origine, si pone altresì quel recente indirizzo di legittimità, secondo cui il giudice chiamato a decidere sulla dichiarazione di adottabilità del minore in stato di abbandono, in applicazione dell’art. 8 CEDU, art. 30 Cost., L. n. 184 del 1983, art. 1, e art. 315 bis c.c., comma 2, deve accertare l’interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l’adozione legittimante una “extrema ratio“, cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse. In questo contesto il modello di adozione in casi particolari di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d), può, ricorrendone i presupposti, costituire una forma di cd. “adozione mite“, idonea a non recidere del tutto, nell’interesse del minore, il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia di origine (Cass., 25/01/2021, n. 1476; Cass., 13/02/2020, n. 3643).
Ed inoltre, nella medesima prospettiva si inseriscono quelle pronunce che affermano il medesimo principio, della non disgregazione della famiglia di origine, anche in tema di immigrazione, ribadendo la sussistenza di un diritto all’unità familiare, secondo la norma d’indirizzo generale di cui all’art. 3 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo (ratificata dalla L. n. 176 del 1991, e richiamata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28), secondo cui “l’interesse del fanciullo deve essere una considerazione preminente“. Tale disposizione prescrive, altresì, che gli Stati vigilino affinché il minore non sia separato dai propri genitori biologici (Cass., 21/10/2019, n. 26831; Cass., 19/02/2008, n. 4197). Sempre in materia di immigrazione, si è –poi – affermato che il giudice è tenuto a verificare l’esistenza del diritto del cittadino straniero al ricongiungimento familiare anche nel procedimento di convalida del decreto di accompagnamento alla frontiera, trattandosi di evenienza potenzialmente ostativa all’esecuzione del provvedimento di espulsione (Cass., 23/11/2020, n. 26563).
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE 17 novembre 2021, n. 35110