Lo straining consiste in una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti di lavoro.
In tutte le suddette ipotesi: se la condotta nociva si realizza con una azione unica ed isolata o comunque in più azioni ma prive di continuità si è in presenza dello straining, che è pur sempre un comportamento che può produrre una situazione stressante, la quale a sua volta può anche causare gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici. Pertanto, pur mancando il requisito della continuità nel tempo della condotta, essa può essere sanzionata in sede civile sempre in applicazione dell’art. 2087 C.c. ma può anche dare luogo a fattispecie di reato, se ne ricorrono i presupposti (vedi, per tutte: Cass., 6 Sezione penale, 28 marzo – 3 luglio 2013, n. 28603). (Cassazione civile sez. lav., 19/02/2016, n. 3291).
Secondo la giurisprudenza di legittimità e di merito le nozioni di mobbing e di straining sono nozioni di tipo medico-legale, che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 C.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro. (Cassazione civile sez. lav., 19/02/2016, n.3291).
Il relativo onere probatorio è quello previsto per la violazione dell’art. 2087 C.c.
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Al riguardo va considerato che, grazie al carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta alla suddetta disposizione codicistica nonché all’ammissibilità della interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 C.c.) ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, la giurisprudenza di legittimità ha inteso l’obbligo datoriale di “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, sancito da questa norma, nel senso di includere anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi (Cass. 22 marzo 2002, n. 4129).
Questo implica, reciprocamente, l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, bum out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale (sulla scorta di quanto affermato anche dalla Corte Costituzionale; vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003 e Cass. 5 novembre 2012, n. 18927).
A ciò è da aggiungere che – poichè, in base al “diritto vivente”, nell’interpretazione delle norme il canone preferenziale dell’interpretazione conforme a Costituzione è rinforzato dal concorrente canone dell’interpretazione non contrastante con la normativa comunitaria e con la CEDU – al fine della corretta individuazione della potenzialità lesiva (nei detti termini) delle indicate condotte, si deve tenere conto anche degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, che ha portato – a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE (Trattato di Amsterdam del 1997) divenuto poi art. 19 TFUE in materia di azioni positive e art. 141 TCE, ora art. 157 TFUE in materia di non discriminazione, che si limitavano a prevedere dei divieti strettamente funzionali ai differenti settori di competenza e di intervento dell’originaria CE – all’affermazione di un generale principio di uguaglianza analogo a quello previsto da molte delle Costituzioni degli Stati membri, declinato nei due diversi aspetti dell’uguaglianza e della non discriminazione, con un ulteriore rafforzamento, al livello di normativa primaria, per effetto dell’adozione della Carta di Nizza, ora Carta dei diritti fondamentali della UE, i cui artt. 20, 21 e 23 riconoscono rispettivamente in linea generale l’uguaglianza davanti alla legge, il principio non discriminazione e il principio di parità tra uomini e donne e la necessità di adottare azioni positive.
Tale processo, poi proseguito in sede comunitaria e nazionale, ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione, come discriminatorie (in modo diretto o indiretto).
Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) … consente attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 C.p.C., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (vedi per tutte: Cass. 5 novembre 2012, n. 18927 cit.).
Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di prova del danno da demansionamento (Cass. SU 22 febbraio 2010, n, 4063; Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 26 novembre 2008, n. 28274), oltre che trovare riscontro nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing (Cons. Stato 21 aprile 2010, n. 2272).
Tali principi sono applicabili anche nell’ipotesi dello straining individuata dalla scienza medica come forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, le quali, ancorché finalisticamente non accumunate, possono risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati (arg. ex Cass. Sez. 6, n. 31413 – 8 marzo 2006). (Cassazione civile sez. lav., 19/02/2016, n. 3291).