Adulterio all’italiana. Film del 1966

Adulterio all'italiana Matrimonio all'italiana Ritratto della giovane in fiamme La vita segreta delle api Sbatti il mostro in prima pagina Straziami ma di baci saziami La Bambolona Ti ho sposato per allegria Aimée & Jaguar Un viaggio chiamato amore Il matrimonio di Lorna ordine delle cose Due giorni Norma RaeAdulterio all’italiana è un film che esce nelle sale cinematografiche nell’anno 1966 che con la regia di Pasquale Festa Campanile, vede la partecipazione Nino Manfredi e Catherine Spaak.

La trama, così come il titolo suggerisce, è incentrata sulla tematica dell’adulterio, raccontata in chiava ironica e sarcastica. Franco Finali (alias Nino Manfredi) intrattiene da tempo una relazione extraconiugale con Gloria, la migliore amica di sua moglie Marta (alias Catherine Spaak). La situazione crolla quando quest’ultima scopre il marito in flagrante adulterio e decide di attuare lo stesso comportamento a titolo di vendetta punitiva. Da fedele e giovane moglie si trasforma in una donna decisa a tradire il marito (o almeno così gli fa credere) con un appassionato amante. Dopo una serie di vicissitudini, gelosie e sensi di colpa, il marito infedele apprende la lezione.

Il film tratteggia l’evoluzione storica e sociale ove un tempo l’infedeltà coniugale era dalla legge considerata come reato e punita con un trattamento penale diverso per i due coniugi con conseguente possibile violazione del principio di eguaglianza, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione.

Orbene, è noto che l’art. 3 dichiara il principio di eguaglianza in generale, in virtù del quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. L’art. 29 riguarda in particolare il principio di eguaglianza nel matrimonio, e dispone che questo è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia della unità familiare.

Indubbiamente, secondo una pura valutazione morale, alla quale, a parte le leggi, è auspicabile che idealmente si ispiri la vita della famiglia, il principio della fedeltà coniugale è unico, e non soffre discriminazioni di carattere quantitativo. Tuttavia, l’ordinamento giuridico positivo non può del tutto prescindere, e di fatto non prescinde, dalle valutazioni che si affermano, spesso imperiosamente, nella vita sociale. Ora, che la moglie conceda i suoi amplessi ad un estraneo è apparso al legislatore, in base, come si è detto, alla prevalente opinione, offesa più grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà del marito. Al di fuori di ogni apprezzamento, trattasi della constatazione di un fatto della vita sociale, di un dato della esperienza comune, cui il legislatore ha ritenuto di non poter derogare. Da solo esso è idoneo a costituire quella diversità di situazione che esclude ogni carattere arbitrario e illegittimo nella diversità di trattamento. Del resto, nel disporre un siffatto trattamento, il legislatore penale, lungi dall’ispirarsi a sue limitate particolari vedute, non ha fatto che adeguarsi a una valutazione dell’ambiente sociale che, per la sua generalità, ha influenzato anche altre parti dell’ordinamento giuridico; come può chiaramente desumersi, tra l’altro, dall’art. 151 del Codice civile, il quale per l’adulterio della moglie consente l’azione di separazione in ogni caso, mentre per l’adulterio del marito la subordina alla condizione che il fatto costituisca una ingiuria grave a danno della moglie.

In senso contrario nemmeno sarebbe il caso di riportarsi alle legislazioni di quei paesi nei quali la infedeltà coniugale nelle sue diverse forme non è preveduta come reato. E ciò perché ogni legislazione va considerata, come è ovvio, in rapporto agli orientamenti e alle influenze sociali del luogo in cui opera; e anche perché la non incriminazione può essere determinata da ragioni varie di opportunità familiare e sociale estranee alla gravità dei fatti in questione, gravità che, nella opinione pubblica di quei paesi, può essere anche non difforme da quella corrente nel nostro.

Il principio della eguaglianza fra i coniugi nel matrimonio è da ritenersi positivamente stabilito nell’ordinamento; né perde di contenuto a causa delle limitazioni che la legge può apportarvi, se queste, come è prescritto, siano mantenute nell’ambito della garanzia della unità familiare. Trattasi, evidentemente, di una eccezione al principio e che nel senso di una eccezione va interpretata; ma ciò non toglie che i limiti siano preveduti e che il concetto dell’unità familiare sia sufficiente a determinarne la portata.

Con l’affermazione della esigenza dell’unità familiare, in fondo, il legislatore costituente riafferma un orientamento già manifesto nel primo comma dello stesso art. 29, allorché dichiara la famiglia società naturale fondata sul matrimonio: dove la qualifica di “naturale“, se non ha un preciso contenuto giuridico, ha certamente implicito il richiamo e il riconoscimento del tradizionale concetto della famiglia, quale tuttora vive nella coscienza del popolo.

Non è dubbio che fra i limiti al principio della eguaglianza dei coniugi siano in primo luogo da annoverare quelli che riguardano le esigenze di organizzazione della famiglia, e che, senza creare alcuna inferiorità a carico della moglie, fanno tuttora del marito, per taluni aspetti, il punto di convergenza della unità familiare e della posizione della famiglia nella vita sociale. Ma non sarebbe fondata la tendenza che volesse ridurre le limitazioni a questi coefficienti positivi. Il legislatore ha ritenuto che la garanzia dell’unità è affidata anche, come in tutti gli organismi, alla difesa contro ogni influenza negativa e disgregatrice della unità stessa; e si deve ammettere pertanto che, relativamente all’adulterio, alla relazione adulterina e al concubinato, le norme penali si siano appunto ispirate, senza arbitrarie disparità, a questa esigenza di difesa. Un indice abbastanza significativo dell’orientamento del Codice circa l’oggetto della tutela penale in queste figure di reato si può già riscontrare nella loro inclusione fra i delitti contro la famiglia e, più specificamente, contro il matrimonio: termini che, superando l’ambito limitato dei rapporti tra i due coniugi, riguardano la famiglia e il matrimonio nella più lata loro essenza istituzionale.

È innegabile che anche l’adulterio del marito può, in date circostanze, manifestarsi coefficiente di disgregazione della unità familiare; ma, come per la fedeltà coniugale, così per la unità familiare il legislatore ha evidentemente ritenuto di avvertire una diversa e maggiore entità della illecita condotta della moglie, rappresentandosi la più grave influenza che tale condotta può esercitare sulle più delicate strutture e sui più vitali interessi di una famiglia: in primo luogo, l’azione disgregatrice che sulla intera famiglia e sulla sua coesione morale cagiona la sminuita reputazione nell’ambito sociale; indi, il turbamento psichico, con tutte le sue conseguenze sulla educazione e sulla disciplina morale che, in ispecie nelle famiglie (e sono la maggior parte) tuttora governate da sani principi morali, il pensiero della madre fra le braccia di un estraneo determina nei giovani figli, particolarmente nell’età in cui appena si annunciano gli stimoli e le immagini della vita sessuale; non ultimo il pericolo della introduzione nella famiglia di prole non appartenente al marito, e che a lui viene, tuttavia, attribuita per presunzione di legge, a parte la eventuale – rigorosamente condizionata – azione di disconoscimento. Tutti questi coefficienti hanno agito sulle direttive del legislatore; e ciò senza punto far calcolo, in quanto fatti anormali e che si auspicano destinati a scomparire, delle reazioni violente e delittuose cui, in ispecie in certi ambienti, può in particolare dar luogo la infedeltà della moglie.

D’altra parte, che la legge penale, nel disporre un dato trattamento, si sia volta per volta adeguata, a seconda dei casi, alla varietà delle situazioni, risulta ben chiaro anche dal fatto che, relativamente alla stessa delicata materia della fedeltà sessuale, il marito e la moglie sono stati trattati con criteri di piena eguaglianza là dove identica è apparsa la posizione di entrambi. Basterà a tal proposito ricordare l’art. 587 Cod. pen. (e ciò a parte ogni valutazione circa l’accettabilità o meno dei criteri che hanno ispirata questa norma), che riduce a minima misura la quantità della pena per l’omicidio e per le lesioni personali volontarie nella ipotesi in cui il delitto sia commesso nell’atto di scoprire il coniuge, la figlia e la sorella in illegittima relazione carnale: il coniuge, in genere, dunque, e non soltanto la moglie, essendosi evidentemente riconosciuto che lo stato d’ira (così espressamente qualificato dal citato articolo) che è a base di questa speciale forma di provocazione, produce un turbamento psichico di tal natura e intensità da non consentire discriminazione alcuna fra i coniugi.

In conclusione il trattamento penale diverso per i due coniugi non viola il principio di eguaglianza. Con tale norma non è stata creata a carico della moglie alcuna posizione di inferiorità, ma soltanto è stato preso atto di una situazione diversa, adattandovi una diversa disciplina giuridica (cit. Corte Cost. sentenza 64/1961).

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