La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento risolve la questione inerente la compatibilità tra la contestazione di più reati e la affermazione della particolare tenuità del fatto e, pertanto, la non punibilità ai sensi dell’art. 131 bis C.p.
Sul punto sono state espresse tesi fra loro divergenti; infatti, ancora in tempi assai recenti la Corte di legittimità, ha avuto modo di affermare che la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131 bis C.p., non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione in quanto anche il reato continuato configura un’ipotesi di “comportamento abituale“, ostativa al riconoscimento del beneficio (Corte di cassazione, Sezione III penale, 4 maggio 2018, n. 19159); la Corte ha in tal senso ulteriormente declinato un principio che sulla base del rilievo che la continuazione fra reati configura appunto un comportamento abituale caratterizzato dalla reiterazione di condotte penalmente rilevanti costituenti un segnale rivelatore di una devianza “non occasionale“, che come tale è priva di quel carattere di trascurabile offensività che, invece, deve essere indefettibile indice del fatto ove lo si voglia sussumere entro il rigido paradigma normativo dell’art. 131 bis c.p. (Cass., Sez. VI, 24 gennaio 2018, n. 3353) ed è stato anche successivamente reiterato attraverso la automatica sussunzione della continuazione fra reati nell’ambito del “comportamento abituale“, impeditivo della ricognizione della particolare tenuità del fatto (Cass., Sez. IV, 8 ottobre 2018, n. 44896).
In senso sostanzialmente analogo – sia pure con riferimento ad una fattispecie materiale (si trattava della violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12) nella quale il legislatore ha espressamente commisurato la entità della sanzione penale al numero delle infrazioni della norma precettiva commesse dal soggetto agente – in altra occasione la Corte a ribadito che la ipotesi della continuazione fra reati si pone come ontologicamente ostativa, in quanto manifestazione di un comportamento abituale deviante, alla qualificazione del fatto in termini di particolare tenuità (Cass., Sez. I, 12 dicembre 2017, n. 55450).
In altre occasioni, invece, la Corte di legittimità ha espresso un orientamento che, seppure con qualche opportuna precisazione connessa alla peculiarità del caso di volta in volta sottoposto alla sua attenzione, appare decisamente mitigare la rigidità e la apparentemente generale applicazione del principio quale dianzi esposto.
Come, infatti, è stato affermato di recente dalla Corte di legittimità, non costituisce elemento ostativo alla applicazione dell’art. 131 bis C.p., la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, qualora questi riguardino azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e nei confronti della medesima persona, posto che da tutti questi elementi emerge una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, che costituisce un elemento incompatibile con la condizione negativa della abitualità della condotta presa in considerazione, quale fattore di esclusione della applicabilità della norma, dall’art. 131 bis C.p. (Cass., Sez. V, 5 febbraio 2018, n. 5358).
Principio che è stato confermato anche dalla coeva sentenza n. 9495 del 2018, ove è stato puntualizzato che la logica antinomia fra reato continuato e particolare tenuità del fatto è rilevabile solo nel caso in cui le violazioni espressione del medesimo disegno criminoso siano in numero tale da costituire di per sé dimostrazione di un certa serialità nel delinquere ovvero di una progressione criminosa, indicative di una particolare intensità del dolo o della versatilità offensiva tali da porre in evidenza un insanabile contrasto con il giudizio di particolare tenuità dell’offesa in tal modo arrecata, (Cass., Sez. II, 2 marzo 2018, n. 9495), ovvero, in altre parole, ove detta reiterazione non sia espressiva di una chiara tendenza od inclinazione al crimine (Cass., Sez. II, 24 settembre 2018, n. 41011), e che già era stato in precedenza enunciato in termini precisamente e puntualmente definiti (Cass., Sez. V, 19 luglio 2017, n. 35590).
Ritiene il Collegio, come già dianzi anticipato, che questo secondo orientamento sia, oltre che più conforme allo stesso tenore letterale della disposizione in questione, certamente espressivo di una più generale coerenza di sistema con altre norme dell’ordinamento.
Quanto al primo profilo sopra accennato) si osserva che lo stesso legislatore, nell’individuare i fattori impeditivi la qualificazione del fatto come espressivo della particolare tenuità della offesa arrecata al bene interesse tutelato dalla norma precettiva, richiama, per quanto ora interessa, oltre che la pregressa dichiarazione a carico dell’autore del fatto siccome delinquente abituale, professionale o per tendenza, la medesimezza dell’indole dei reati commessi ove ci si trovi di fronte a più reati, ovvero la circostanza che si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate.
Si tratta, come è evidente, di elementi che, evidenziando una qualche dimestichezza e familiarità del soggetto agente con il delinquere, rendono ex se il fatto commesso tale da rivestire un non trascurabile o, comunque, non assai modesto disvalore sociale.
In particolare, per quanto attiene alla molteplicità delle condotte realizzate, il legislatore ha fatto puntuale riferimento ad aggettivi riferiti alle condotte (plurime, abituali, reiterate) aventi un ben chiaro spettro semantico, dovendo ritenersi che una condotta sia reiterata ove la stessa, con identiche modalità fenomeniche, sia ripetuta nel tempo, che essa sia abituale ove la stessa, non essendo episodica, si segnali per una sua certa metodicità, mentre una condotta è plurima ove essa, ancorché sotto diverse guise, intervenga un considerevole numero di volte.
La Corte, già in passato, ebbe a precisare che, la nozione di condotta plurima, presuppone la esistenza di almeno tre condotte fra loro disomogenee, posto che la valenza di significato del lemma utilizzato dal legislatore, appunto l’espressione plurima, si discosta dal concetto di semplice pluralità della azione, richiedendo il relativo concetto un quid pluris, costituito da un ulteriore elemento fattuale che si aggiunga alla mera pluralità, la quale richiede anche la sola duplicità dei comportamenti (cfr. Cass., Sez. III, 30 novembre 2015, n. 47256; sul concetto di condotte plurime come espressivo della esecuzione, almeno tre volte, di distinte e molteplici condotte si veda anche Cass., S.U., 6 aprile 2016, n. 13681).
Da quanto sopra sembra di potere escludere che nei comportamenti addebitati ai prevenuti sia riscontrabile una delle condizioni ostative alla riconoscibilità della particolare tenuità dell’offesa posto che, non essendo alcuno dei prevenuti già stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, né essendo i reati contestati espressivi di una medesima indole criminale, le condotte ascritte ai tre prevenuti sono numericamente solo due ei per come descritte nel capo di imputazione e verificate in esito al dibattimento di primo grado) esse non appaiono né espressive di una certa abitualità criminosa né hanno comportato la reiterazione di un medesimo modus operandi da parte dei prevenuti che evidenzi la loro proclività ad una determinata azione delinquenziale.
Osserva, peraltro, ancora il Collegio che considerare di per sé la contestazione di più condotte, tanto più se le stesse appaiano, come nel caso di specie, primo visu affasciate dal vincolo della continuazione, esulanti rispetto al fuoco della disposizione normativa contenuta nell’art. 131 bis C.p., è soluzione che si presenta, inoltre, eccentrica rispetto alla stessa sistematica sanzionatoria di cui è espressione l’art. 81 C.p.
Infatti l’automatismo della valutazione della pluralità delle condotte siccome ostative alla riconducibilità del fatto nell’ambito della particolare tenuità ex art. 131 bis C.p., anche nel caso in cui la contestualità di esse deponga inequivocabilmente nel senso della unicità della volizione antidoverosa dell’agente, comporterebbe una ingiustificata, ed ingiustificabile, disparità di trattamento con la figura, per ampi tratti identicamente considerata dal legislatore ed identicamente configurante una unificazione di più illeciti operante esclusivamente quoad poenam, del concorso formale fra reati, prevista dall’art. 81 C.p., comma 1, in cui la unicità della condotta, pur considerata la risultante pluralità di violazioni commesse, consentirebbe, diversamente da quanto si ritiene sulla base dell’orientamento interpretativo ora avversato, l’eventuale applicabilità dell’art. 131 bis C.p.
Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 16 aprile 2019, n. 16502