La portata e la funzione della comunione de residuo disciplinata all’art. 177 c.c., comma 1, lettera c)
Ai sensi dell’art. 177 c.c., lett. c), costituiscono oggetto della comunione “i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento dalla comunione, non siano stati consumati”.
Tale norma dovrebbe interpretarsi alla luce delle altre disposizioni disciplinanti la comunione legale, e in particolare dell’art. 192 c.c., nel senso che i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi sono destinati ai bisogni della famiglia e, qualora non siano stati consumati all’atto dello scioglimento della comunione, entrano nella comunione de residuo in via assoluta.
Siffatta interpretazione sarebbe in asse con il principio fondamentale ispiratore della comunione legale, che una contraria esegesi svuoterebbe di contenuto, in quanto detti proventi sono concepiti dal legislatore come destinati all’utilizzazione da parte della famiglia indipendentemente dalla loro provenienza (se, cioè, dall’attività lavorativa di uno solo dei coniugi, o di entrambi in misura analoga o diversa). I proventi, percetti o percipiendi, dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, dunque, entrano di pieno diritto a far parte della comunione immediata, così come vi entrano a far parte gli acquisti con essi compiuti; spetta, quindi, al coniuge che ne è titolare dimostrare, ove non rinvenuti al momento dello scioglimento dalla comunione legale, di averli consumati a vantaggio della famiglia.
In realtà, il fulcro del ragionamento è che costituiscono oggetto della comunione ai sensi dell’art. 177 c.c., lett. c), non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione, ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione.
La impostazione in diritto riecheggia una tesi che ha ricevuto l’avallo in diversi arresti della Corte di legittimità.
Si vuoi fare riferimento alle sentenze nn. 8865/1996, 9355/1997 e 14897/2000 nelle quali, da collimanti angoli visuali, la Corte si è occupata sia della problematica dell’individuazione del momento in cui i proventi dell’attività separata di ognuno dei coniugi entrano a far parte della comunione legale, sia della questione, che a quella problematica è strettamente collegata, della titolarità dei beni acquistati, con denaro proprio, dal singolo coniuge.
Denominatore comune di tali sentenze e il principio, che innerva le statuizioni di quella impugnata, per cui i proventi dell’attività separata dei coniugi, contemplati all’ art. 177 c.c., lettera c), entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione.
In particolare, la sentenza n. 8865/1996 (non massimata dall’Ufficio del Ruolo e del Massimario) ha stabilito che, una volta dimostrata l’esistenza di redditi personali di uno dei coniugi, si verificherebbe una inversione dell’onere della prova e spetterebbe al coniuge titolare dell’attività dimostrare di avere utilizzato i redditi percepiti per soddisfare bisogni della famiglia o fare investimenti in beni caduti in comunione, il coniuge che percepisse i redditi non li potrebbe utilizzare liberamente (pur fatto salvo il dovere di contribuzione), ma, de facto, li dovrebbe destinare obbligatoriamente nella loro totalità ai bisogni della famiglia, pena il dovere di rimborsarli alla comunione stessa al momento del suo scioglimento.
La sentenza n. 9355/1997, nella parte motiva, ha affermato, sia pure a livello di obiter dictum, ma per ben due volte, che i proventi dell’attività separata dei coniugi sono destinati indistintamente al “consumo” della famiglia e entrano di pieno diritto a far parte della comunione immediata.
Sulla stessa scia della n. 8865/1996 si e collocata la sentenza n. 14897/2000, la quale ha affermato il principio, espressamente condiviso dalla sentenza impugnata, che costituiscono oggetto della comunione da residuo, ai sensi della disposizione richiamata, non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione, ma anche quelli, effettivamente percepiti o che si sarebbe dovuto percepire, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione.
Come noto, il problema concernente il modus e il tempus operandi della comunione de residuo animò non poco la dottrina, soprattutto all’indomani della riforma del diritto di famiglia. Le maggiori perplessità riguardarono proprio la disciplina dei proventi dell’attività separata dei coniugi. Secondo la tesi maggioritaria in dottrina, i proventi de quibus entrano nella comunione soltanto per la parte non consumata al momento dello scioglimento, senza che il coniuge non percettore possa contestarne in alcuna maniera il modo d’impiego, a meno naturalmente di comportamenti tali da integrare gli estremi di una violazione degli artt. 143 e 146 c.c., comma 3. In altri termini, in mancanza di una specifica normativa riguardante l’amministrazione dei beni in questione, è a essi applicabile la disciplina prevista per i beni personali dei coniugi, sicché, manente communione, una volta adempiuti gli obblighi di contribuzione ex artt. 143 e 148 c.c., comma 3, ciascuno dei coniugi ha piena libertà di godimento e disposizione sui proventi della propria personale attività e sui relativi frutti, senza alcun obbligo di rendiconto nei confronti dell’altro coniuge.
Altra impostazione, rifiutando l’idea che uno dei coniugi potesse disporre a proprio piacimento dei beni destinati a ricadere in comunione de residuo, ritenne che l’unica possibile interpretazione dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. c), in linea con lo spirito della riforma fosse quella di considerare i proventi dell’attività separata dei coniugi ricadenti in comunione immediata. Nell’ambito di tale filone dottrinario, si sostenne in particolare che, allo scioglimento della comunione, cadono in essa non solo i redditi individuali ancora esistenti, non essendo stati fino a quel momento consumati, bensì tutti i redditi percepiti, o che dovevano esserlo, per i quali manchi la prova, ad opera del coniuge titolare, del loro utilizzo per le esigenze della famiglia o per investimenti già compresi nella comunione.
A tale ultima tesi, come si e visto, ha per lungo tempo prestato piena adesione la (citata) giurisprudenza della Corte. Secondo le cennate decisioni, infatti, una volta dimostrata l’esistenza di redditi, si verificherebbe un’inversione dell’onere della prova e spetterebbe al coniuge titolare dell’attività dimostrare di avere utilizzato i redditi percepiti per soddisfare bisogni della famiglia o per fare investimenti in beni caduti in comunione. Solo i proventi per i quali è raggiunta questa prova restano esclusi dalla caduta in comunione de residuo.
La conseguenza di tale affermazione non può che essere la negazione della libertà del coniuge di disporre dei redditi percepiti in maniera differente dal soddisfacimento dei bisogni della famiglia, pena il dovere di rimborsarli alla comunione stessa al momento del suo scioglimento.
Le prime prese di posizione della Corte hanno rinfocolato il dibattito sulla tematica della comunione de residuo. La dottrina assolutamente maggioritaria ha sottoposto a serrate critiche l’orientamento così espresso dalla giurisprudenza di legittimità, mettendo in luce che esso finisce per proporre una interpretazione abrogante della parte finale dell’art. 177 c.c., lett. c) – ove si dispone che i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi cadono in comunione solo de residuo – in quanto tali proventi farebbero parte della comunione immediata.
Con l’ulteriore conseguenza che si dovrebbero probabilmente considerare abrogate anche le altre ipotesi di comunione de residuo contemplate dagli artt. 177 e 178 c.c., lett. b). L’orientamento non ha trovato pieno consenso neppure tra coloro mostratisi sensibili alla posizione del coniuge non percettore di redditi. Di vero, pur escludendosi la totale liberti del coniuge percettore di disporre dei redditi da attività separata, si ritenne più appropriato configurare a suo carico, in caso di dissipazione di attività, un’ipotesi di responsabilità per abuso del diritto. Vi fu chi propugnò l’utilizzabilità da parte del coniuge non percettore sia di strumenti di tutela approntati direttamente dalla disciplina della comunione legale – come lo scioglimento della comunione ex art. 193 c.c., comma 2 – sia di strumenti di carattere più generale – come il risarcimento a favore della comunione ex art. 2043 c.c., o i classici mezzi di tutela della garanzia patrimoniale (prima fra tutti l’azione revocatoria) – quando non, addirittura, l’esperibilità di azioni giudiziali di natura cautelare – come il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., o il sequestro ante causam.
In particolare, si è evidenziato in dottrina che l’orientamento criticato:
– non trova riscontro nel dettato normativo, l’art. 177 c.c., lett. c) non accennando affatto alle modalità di impiego dei proventi dell’attività svolta da uno dei partecipanti alla comunione legale, nè tampoco al dovere di impiegarli per esigenze della famiglia; e nel silenzio della normativa – la quale non pone obblighi di destinazione sui beni oggetto della comunione de residuo ne’ limiti o controlli alla facoltà di “consumazione” – l’impiego nei più vari modi, non tradottosi in nuovi e durevoli acquisti, sottrae “lecitamente” cespiti a quella che, al momento dello scioglimento della comunione, diverrà esattamente la comunione de residuo, tanto da costituire un fatto “impeditivo” suscettibile di essere opposto al coniuge il quale dimostri il godimento di determinate entrate da parte dell’altro;
– onera il coniuge che presta la propria opera al di fuori delle mura domestiche di un puntuale rendimento dei conti circa il modo con cui ha impiegato i proventi della propria attività (al momento della cessazione del regime legale, eventualmente dopo svariati anni di vita in comune), e quindi anche di ima contabilità gravosissima, atteso che la prescrizione in materia comincia a decorrere solo dal passaggio in giudicato della sentenza che ha pronunciato la separazione dei coniugi, o da qualsiasi altro evento che ha condotto alla cessazione del regime legale;
– induce conseguenze molto rilevanti anche nei rapporti dei coniugi con i terzi, in particolare con i creditori. Si verificherebbe, infatti, un forte squilibrio a favore dei creditori della comunione (che si possono soddisfare, ex lege, sui beni della comunione e, in via sussidiaria, sui beni di ciascuno dei coniugi nella misura della metà del credito) a tutto svantaggio dei creditori particolari di ciascuno dei coniugi (che prima devono soddisfarsi ex lege, sui beni personali del coniuge – a quel punto potenzialmente molto ridotti – e solo in via subordinata possono aggredire i beni della comunione “fino al valore corrispondente al valore della quota del coniuge obbligato”), nel momento in cui si interpreta l’art. 177 c.c., lettere a) e c), nel senso che i proventi dell’attività separata di un coniuge cadono in comunione immediata, si opera quindi uno spostamento non indifferente della garanzia patrimoniale a vantaggio dei creditori della comunione e contro i creditori particolari del coniugo titolare dell’attività separata. A tale proposito, particolarmente significativo diventerebbe il caso del coniuge imprenditore: i suoi creditori vedrebbero automaticamente dimezzata, perché ricadente in comunione immediata, la garanzia rappresentata dai profitti dell’impresa, con la presumibile conseguenza che un imprenditore coniugato e in regime di comunione legale diventerebbe automaticamente meno affidabile di uno non coniugato o i cui rapporti patrimoniali siano disciplinati da un altro regime;
– inasprisce fortemente le limitazioni strutturali che l’istituto della comunione legale pone alla libertà dei coniugi, aggiungendo a livello interpretativo ulteriori restrizioni che renderebbero l’istituto troppo vincolante e oppressivo e, dunque, inficiato dal rischio di essere ben poco desiderato se non addirittura abbandonato dai coniugi;
– apre la strada a tutta una serie di strumenti a disposizione del coniuge non percettore di redditi, a favore del quale, anziché una aspettativa di mero fatto o di diritto in relazione alla caduta in comunione differita dei beni di cui agli artt. 177 e 178 c.c., lett. b) e c), e si configurerebbe un vero e proprio diritto soggettivo) con conseguente titolarità di strumenti di tutela quali l’azione revocatoria o l’azione surrogatoria in relazione a crediti derivanti dall’attività separata dell’altro coniuge, pur sa poi il coniugo non titolare dell’attività azionerebbe un diritto della comunione; si potrebbe persino arrivare alla conclusione che il debito nei confronti di un lavoratore (dipendente o autonomo), sposato e in regine di comunione legale, costituisce un’obbligazione nei confronti della comunione, con tutta la conseguenze che ne derivano: ad esempio, il lavoratore non potrebbe, senza il consenso del coniugo, rinunciare ai propri crediti o concludere transazioni in merito senza correre il rischio di un’azione di annullamento ex art. 184 c.c., da parte del coniuge.
Si e giustamente rimarcata, poi, la incongruenza, logica prima ancora che giuridica, che dall’orientamento giurisprudenziale deriverebbe in raffronto ai beni personali acquistati dai coniugi e in particolare a quelli di uso strettamente personale e che servono all’esercizio della professione (art. 179 c.c., lettera c) e d), quando (cioè nella quasi totalità dei casi) essi vengono acquistati con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi. Se, infatti, i proventi dell’attività separata cadono in comunione immediata, risulta difficile concepire poi la distrazione dalla comunione medesima di quei beni che sono personali (perché, per ipotesi, necessari all’esercizio della professione o di uso strettamente personale), ma che normalmente vengono acquistati proprio mercè l’utilizzo di quei proventi.
Si e, infine, altrettanto convincentemente osservato che l’acquisizione differita dei redditi personali non avrebbe significato se il percettore dei redditi, dopo aver assolto l’obbligo di contribuzione, non avesse la più ampia disponibilità dei redditi stessi. Egli, pertanto, a sua discrezione, deve poter consumare i redditi personali operando acquisti che, a norma dell’art. 177 c.c., lett. a), entrano in comunione, ovvero che, per l’uso cui vengano destinati, vanno considerati quali beni personali ex art. 179 c.c., lett. c) e d).
Dunque, la dottrina assolutamente prevalente non ebbe dubbi sull’inesistenza di un dovere del coniuge di destinare ai bisogni della famiglia tutti i propri redditi, anche quelli eccedenti i bisogni della famiglia stessa. È meno che mai sorsero dubbi sulla caduta in comunione di tali beni soltanto per la parte non consumata al momento dello scioglimento della comunione stessa. Condividendo le critiche rivolte all’orientamento sopra riportato, secondo cui i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi “entrano di pieno diritto a far parte della comunione immediata”, essendo destinati indistintamente al “consumo” della famiglia, la Corte è giunta in seguito ad affermare il contrario principio che l’art. 177 c.c., lett. c) esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno di essi e consumati in epoca precedente allo scioglimento della comunione (cfr. Cass. n. 13441/2003).
Si ritiene di aderire all’indirizzo inaugurato dalla sentenza da ultimo citata, approvando le sopra riportate critiche mosse al precedente orientamento dalla dottrina maggioritaria e in parte richiamate dalla pronuncia medesima, le cui conclusioni sono del resto congruenti con la configurazione data dal legislatore agli istituti in discussione.
L’attuale comunione dai beni trova, invero, il suo precedente immediato nella “comunione degli utili e degli acquisti”, compresa tra i regimi patrimoniali convenzionali della famiglia nel quadro della normativa (ora sostituita) risultante dagli artt. 159 e 229 c.c.; tale comunione, a sua volta, aveva in parte ricalcato il modello delineato nel codice civile del 1865 che, nonostante l’esempio del codice francese, non aveva accolto come regime legale la comunione dei beni. Ora, nello spirito costituzionale della totale parità tra i sessi e della eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con la riforma del diritto di famiglia introdotta nel 1975 si è inteso dare ai rapporti tra i coniugi un assetto autenticamente paritario, che si esprime prioritariamente nell’obbligo dei medesimi di contribuire col proprio lavoro (anche se soltanto casalingo per l’uno di essi) ai bisogni della famiglia (art. 143 c.c., comma 3).
Tuttavia, con la elevazione della comunione dal rango di regime convenzionale a quello di regime legale, non è stata del tutto sacrificata sul piano patrimoniale la liberti individuale. Innanzitutto, rimane integra la facoltà di scelta del regime patrimoniale, ben potendo i coniugi optare per un diverso regime;e quindi anche per la separazione dei beni (art. 162 c.c.); inoltre, sono esclusi dalla comunione (art. 179 c.c., comma 2) gli acquisti di beni immobili e gli acquisti di beni mobili soggetti a trascrizione, però rientranti nelle categorie di beni di uso strettamente personale od occorrenti per l’esercizio professionale o acquisiti con il prezzo di beni di proprietà esclusiva o col loro scambio, quando l’esclusione risulti dall’atto di acquisto e sempre che sia intervenuto anche l’altro coniuge.
Perciò, nella contrapposizione tra i beni che costituiscono oggetto della comunione (art. 177 c.c.) – pur se si tratta di comunione cosiddetta de residuo concernente i frutti dei beni propri dell’uno dei coniugi e i proventi dell’attività separata non consumati allo scioglimento della comunione – e i beni che ne sono esclusi ai sensi dell’art. 179 c.c., la comunione stessa appare strutturata essenzialmente sugli “acquisti” (art. 177 c.c., lett. a), sulle aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio (art. 177 c.c., lett. d), nonché sugli utili e incrementi delle aziende appartenenti a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi (art. 177 c.c., comma 2).
Ne consegue che i redditi individuali dei coniugi – tanto che si tratti di redditi di capitali (art. 177 c.c., lettera b), quanto che si tratti di proventi della loro attività separata (art. 177 c.c., lettera c) – non cadono automaticamente in comunione, ma rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a diventare comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di scioglimento della comunione.
Sostenere che possono considerarsi “consumati” e quindi esclusi dalla comunione de residuo – solo i redditi utilizzati o per soddisfare i bisogni della famiglia o per procurare “acquisti” alla comunione legale non è conforme al sistema varato nel 1975, nel quale non vi è traccia di strumenti concessi al “partner” per sindacare o impedire l’utilizzo delle disponibilità individuali dell’altro coniuge.
In diversi termini, il legislatore del 1975 ha coniato un regime di comunione differita relativo a quattro diverse categorie di beni: 1) i frutti dei beni di ciascuno dei coniugi (art. 177 c.c., lett. b);
2) i proventi delle attività separate (art. 177 c.c., lett. c);
3) i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, cioè dell’azienda costituita dopo il matrimonio (art. 178 c.c., prima parte);
4) gli utili e gli incrementi dell’impresa costituita da uno dei coniugi anche prima del matrimonio (art. 178 c.c., ultima parte).
I beni rientranti in queste quattro categorie, come è palesemente evidenziato anche dalla formulazione legislativa, entreranno a far parte della comunione solo se sussistono allo scioglimento di questa, al momento: cioè, in cui, per qualsiasi ragione, si verifichi la cassazione del regime della comunione legale; prima appartengono in via esclusiva al singolo coniuge, che ne potrà liberamente ed autonomamente disporre.
In definitiva, se è vero che il sistema legale è quello comunitario, e anche vero che questo si caratterizza per l’esser variamente e notevolmente temperato, giacché comprende pienamente, facendone oggetto di comunione attuale, solo gli acquisti – e non tutti gli acquisti – mentre per gli utili si prevede solo una comunione virtuale e de residuo, formando essi oggetto di una semplice aspettativa di futura partecipazione.
L’indirizzo contrario attribuisce alla comunione legale una onnicomprensività che va ben oltre il dettato normativo. Si tratta di soluzione che, pur nell’apprezzabile intento di garantire maggiormente il coniuge economicamente più debole, si pone palesemente in contrasto con la lettera della legge, che non prevede vincoli di destinazione, ne’ impone limiti o controlli al diritto di ciascun coniuge di disporre del “surplus” dei propri redditi.
Corollario di tale affermazione che non esiste alcun diritto, giuridicamente, tutelato, di ciascun coniuge sui proventi dell’altro e sul modo in cui questi li amministra. Di conseguenza manente comunione il coniuge percettore avrà, rispetto ai proventi dell’attività personale, un potere di godimento, amministrazione e disposizione pieno, ex art. 217 c.c., salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia, che peraltro sussiste anche con riferimento ai beni personali (art. 185 c.c.).
Tirando le fila del discorso, per i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi, è dall’art. 177 c.c., lett. c) prevista la cosiddetta comunione de residuo, la quale si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettivamente sussista nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi ritenendo a essa destinati ex lege i proventi personali che non siano stati provatamente impiegati per il soddisfacimento dei bisogni familiari, o che siano stati comunque investiti in acquisti già caduti in comunione.
Deve quindi ribadirsi il principio che l’art. 177 c.c., lett. c), esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione. Può soggiungerai che la comunione de residuo non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della comunione ed a carico del singolo coniuge, ma di luogo ad una semplice aspettativa di fatto, in quanto solo al momento dello scioglimento della comunione viene ad operarsi un vero e proprio ritrasferimento, nel senso di una comproprietà differita. All’altro coniuge la legge non riserva un diritto reale attuale, ma attribuisce pur sempre una forma di tutela verso lo scarso senso di solidarietà coniugale da parte del percettore del reddito.
In questa prospettiva, a venire in gioco non sono i diritti che si ricollegano al regime patrimoniale legale della famiglia, quanto i doveri fondamentali sanciti dagli artt. 143 e 147 c.c., che costituiscono il regime matrimoniale primario nel senso sopra precisato.
Ed allora i possibili rimedi a fronte di un comportamento del coniuge tale da pregiudicare le aspettative dell’altro saranno quelli legislativamente previsti, e cioè la facoltà per ciascun coniuge di chiedere la separazione giudiziale dei beni prevista dall’art. 193 c.c., comma 2, nel caso in cui la condotta tenuta dall’altro nell’amministrandone dei beni metta in pericolo gli interessi del coniuge o della comunione (esprimendo un concetto che può comprendere l’aspettativa inerente la comunione residuale).
Contro l’abuso che l’altro coniuge faccia delle proprie risorse economiche, disperdendole senza tenere conto delle esigenze proprie della famiglia, il coniuge non percettore potrebbe utilizzare strumenti di carattere più generale, come il risarcimento del danno in favore della comunione ex art. 2043 c.c., o il mezzo di tutela della garanzia patrimoniale costituito dall’azione revocatoria, accogliendo l’art. 2901 c.c., una nozione lata di credito, comprensiva della mera aspettativa, con conseguente irrilevanza delle relative fonti di acquisizione; ciò in coerenza con la funzione propria dell’azione, la quale non persegue scopi specificamente restitutori, ma mira a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori, compresi quelli meramente eventuali (difficile sostenere invece la possibilità di ricorrere alla azione surrogatoria implicante la qualità di creditore attuale nel soggetto agente).
Corte di Cassazione, 7 febbraio 2006, n. 2597