La diffamazione a mezzo stampa si realizza attraverso l’offesa all’altrui reputazione e trova una disciplina giuridica nell’art. 595, comma 3, C.p., “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro“.
La diffamazione a mezzo stampa e la conseguente scriminante del diritto di cronaca per il requisito della verità e/o del diritto di critica trovano una disciplina nella corposa giurisprudenza della corte di legittimità e nelle corti di merito.
Le linee guida che governano la materia sulla scorta dell’ampia elaborazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità possono essere così sintetizzate.
Uno Stato democratico garantisce e tutela il diritto di critica degli organi d’informazione e dei cittadini circa l’operato delle persone preposte a funzioni o servizi pubblici.
La valenza offensiva di una determinata espressione deve essere riferita al contesto nel quale è stata pronunciata. Occorre calibrare la portata di una espressione in relazione al momento e al contesto sia ambientale che relazionale in cui la stessa viene profferita.
Non è ammessa una risposta giudiziaria repressiva che estenda la tutela prevista contro la lesione dell’onore o del decoro anche a casi di contestazione dell’operato altrui. (così Cass., Sez. 5, n. 32907 del 30/06/2011).
La causa di giustificazione di cui all’art. 51 C.p., sub specie dell’esercizio del diritto di critica, ricorre quando i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente convinto, ancorché errando, della loro veridicità.
Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che, postulando l’esistenza del fatto elevato a oggetto o spunto del discorso critico, trova una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; di conseguenza va esclusa la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano adeguate e funzionali all’opinione o alla protesta, in correlazione con gli interessi e i valori che si ritengono compromessi (Cass., Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014).
Nell’esercizio del diritto di critica il rispetto della verità del fatto assume un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Cass., Sez. 5, n. 25518 del 26/09/2016).
Nella motivazione della sentenza della quinta sezione n. 36602 del 15/07/2010, la Corte di legittimità specifica: «Per dirimere e divergenze sulla nozione di “continenza” occorre ricordare che di essa non si può invocare la esclusione sol perchè le frasi pronunciate abbiano contenuto lesivo della altrui reputazione».
«Trattandosi di elemento costitutivo di una causa di giustificazione che dovrebbe valere a escludere la punibilità del reato di diffamazione, il requisito della continenza evidentemente è chiamato ad operare dopo che è stata accertata la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato in parola e sul presupposto, quindi, che si è riconosciuto che frasi denigratorie sono state pronunciate. Il requisito in parola, che la giurisprudenza costante della Cassazione richiede per la integrazione della esimente, riguarda invero essenzialmente “i termini” con i quali ci si è espressi, ossia le “espressioni utilizzate” (Cass., Sez. U., n. 37140 del 30/05/2001), il lessico, la modalità espositiva e solo di riflesso gli argomenti che ne derivano, posto che l’uso di epiteti o di qualificazioni di per sé offensivi è considerato il sintomo inequivoco del fatto che non si può essere in presenza di una critica legittima, essendosi trascesi ad attacchi personali, necessariamente ingiustificati: attacchi che precludono, cioè, la possibilità di dare copertura alla esternazione mediante il bilanciamento dei diritti riconosciuti all’uomo sia come singolo che come componente di formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.), come diritto, pure costituzionalmente riconosciuto, alla libera
manifestazione del pensiero».
«Viceversa, la continenza non può essere evocata anche come argomento a copertura della pretesa di selezione degli argomenti attraverso i quali si formula la critica perché questa, quale valore fondante fissato nella Costituzione, non può che basarsi sulla assoluta libertà di scelta degli argomenti sui quali si articola la esposizione stessa del proprio pensiero, sempre che siano rispettati anche gli altri due requisiti sopra ricordati (e cioè la verità del fatto da cui muove la critica e l’interesse sociale a conoscerla)».
«In altri termini, se l’argomento rispetta il criterio della verità del fatto da cui muove la critica e se sussiste l’interesse sociale a conoscerla, è consentita dall’ordinamento la esposizione di opinioni personali lesive della altrui reputazione e, quindi, contenenti la rappresentazione di eventi infamanti, una volta che l’agente si sia affidato ad una esposizione misurata nel linguaggio».
Siffatta impostazione ermeneutica si pone in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui la incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia «prescritta dalla legge», non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia «necessaria in una società democratica» (cfr. sul tema da ultimo Cass., Sez. 5, n. 2092 del 30/11/2013).
Sulla centralità del ruolo assunto nello sviluppo di una società democratica, dalla libera stampa, che ha il dovere e il diritto di informare il pubblico su tutte le questioni di interesse generale, si e’ pronunciata da tempo la Corte Edu (cfr. la sentenza 24 febbraio 1997, De Haes e Gijsels c. Belgio).
La Corte EDU ha sviluppato il principio inerente la “verità del fatto narrato” per ritenere “giustificabile” la divulgazione lesiva dell’onore e della reputazione: ed ha declinato l’argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest’ultimo caso necessiti che il nucleo fattuale, da cui muova il giudizio, sia veritiero versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva “eccessiva”, non giustificabile perchè assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali (cfr. tra le altre sentenza CEDU Mengi vs. Turkey, del 27.2.2013).
Corte di Cassazione sentenza 5 giugno 2020, n. 17259