Discriminazione diretta e indiretta nell’ambito del lavoro

Discriminazione direttaLa Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la discriminazione diretta e indiretta nel settore lavorativo e nel caso di specie consistente nell’indicazione di un limite staturale nell’ambito di una procedura di assunzione di personale aziendale.

È noto come le discriminazioni, fondate sul sesso, definite “indirette” si distinguano da quelle dirette. La distinzione è affermata dall’art. 25 del D.Ig. 198/2006 (Discriminazione diretta e indiretta – Legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, commi 1 e 2) che al primo comma stabilisce che “Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga“.

Il secondo comma del citato articolo afferma che “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purche’ l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari“.

Orbene soltanto le disposizioni, i criteri o le prassi che integrino le discriminazioni indirette  possono, in forza dell’art. 2, n. 2, secondo trattino della direttiva n. 76/207/CEE, evitare la qualifica di discriminazione, a condizione che siano giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il (loro) conseguimento siano appropriati e necessari” (art. 25, secondo comma D.lg. 198/2006), mentre una siffatta possibilità non è prevista per le disparità di trattamento atte a costituire discriminazioni dirette, al sensi dell’art. 2, n. 2, primo trattino, di tale direttiva (Corte giustizia UE 18 novembre 2010, procedimento C-356/09).

In tale senso si afferma che il limite staturale nell’ambito di una procedura di assunzione di personale aziendale integri una discriminazione indiretta rientrante nell’art. 25 D.lg. 198/2006, ove non oggettivamente giustificato, né comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni della qualifica richiesta.

Ciò sulla base del principio di diritto, secondo cui, in tema di requisiti per l’assunzione, qualora in una norma secondaria sia prevista una statura minima identica per uomini e donne, in contrasto con il principio di uguaglianza, perché presupponga erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne e comporti una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime, il giudice ordinario ne apprezza, incidentalmente, la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni, oltre alla valutazione del presupposto del non avere “l’azienda“, provato “la rigorosa rispondenza del limite staturale alla funzionalità e alla sicurezza del servizio da svolgere“, a dimostrazione di una congrua giustificazione della statura minima in riferimento alle mansioni comportate dalla qualifica.

Corte di Cassazione Civile Sent. Sez. L Num. 3196 Anno 2019

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