Esimenti del diritto di critica e di cronaca
In tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, la giurisprudenza della Corte d legittimità si esprime ormai in termini consolidati in riferimento ai requisiti caratterizzanti il necessario bilanciamento dei beni in conflitto, individuati nell’interesse sociale all’informazione, nella continenza del linguaggio e nella verità del fatto narrato. Nella delineata prospettiva, è stato evocato anche il parametro dell’attualità della notizia, nel senso che una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione deve essere ravvisata nell’interesse generale alla conoscenza del fatto nel momento storico, e dunque nell’attitudine della informazione a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che il cittadino possa liberamente orientare le proprie scelte nel campo della formazione sociale, culturale e scientifica (tra le tante, Sez. 5, n. 39503 del 11/05/2012).
Con specifico riferimento al diritto di critica, il rispetto del principio di verità si declina peculiarmente, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Sez. 5, n.25518 del 26/09/2016, 10 dep. 2017, Sez. 5, n.7715 del 04/11/2014, dep. 2015).
Il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero che si specifichi nell’esercizio del diritto di critica deve, comunque, essere contemperato con i principi costituzionali di cui agli artt. 2 e 3 Cost. In questo senso, anche l’errore sulla veridicità dei fatti o sulla correttezza dei giudizi oggetto della condotta incriminata non esclude il dolo richiesto dalla norma perché non ricade sugli elementi costitutivi della fattispecie, potendo il reato essere consumato anche propalando la verità, ed essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo, la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa (Sez. 5, n.47973 del 07/10/2014).
Siffatta impostazione si pone in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 della Convenzione, a meno che non sia «prescritta dalla legge», non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia «necessaria in una società democratica».
In riferimento agli enunciati limiti, la Corte EDU ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente la ‘verità del fatto narrato‘ per ritenere ‘giustificabile‘ la divulgazione lesiva dell’onore e della reputazione: ed ha declinato l’argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengono un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest’ultimo sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deve essere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva ‘eccessiva‘, non scriminabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali.
In tal senso, la Corte europea si riferisce principalmente al diritto di critica, politica, etica o di costume e, in generale, a quel diritto strettamente contiguo, sempre correlato con il diritto alla libera espressione del pensiero, che è il diritto di opinione, indicando quali siano i limiti invalicabili nel caso di critica politica.
Nella delineata prospettiva si pone la sentenza CEDU Mengi vs. Turkey, del 27.2.2013, che costituisce ancora la più avanzata ricognizione della posizione della Corte in materia di art. 10 della Carta nella distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto di prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione), rilevando come nel secondo caso il potenziale offensivo della propalazione, nella quale è tollerabile – data la sua natura – ‘exaggeration or even provocation‘, sia neutralizzato dal fatto che la stessa si basi su di un nucleo fattuale (veritiero e rigorosamente controllabile) sufficiente per poter trarre il giudizio di valore negativo; se il nucleo fattuale è insufficiente, il giudizio è ‘gratuito‘ e pertanto ingiustificato e diffamatorio.
In altri termini, l’obiettivo che la verifica dei reciproci confini tra l’intervento penale dello Stato a tutela del singolo individuo e della sua reputazione ed il diritto ad essere informati e ad informare deve porsi, è finalizzato ad evitare che l’intervento penale determini effetti dissuasivi nell’esercizio della libertà di espressione, con un’ingerenza da parte dello Stato sproporzionata e non necessaria in una società democratica, determinando, pertanto, una violazione dell’art. 10 della CEDU, che tutela il diritto alla libertà di espressione nei riguardi di ogni persona, includendo in tale diritto anzitutto la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee (Corte EDU, Magosso e Brindani c. Italia, 16 gennaio 2020).
La giurisprudenza di Strasburgo ha misurato siffatti principi in riferimento al discorso discriminatorio, finalizzato alla promozione del pensiero unico e, in genere, espressivo d’odio.
La Convenzione non offre un’espressa definizione di «incitamento all’odio», che invece si ritrova nella Raccomandazione n. 97 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, adottata il 3 ottobre 1997, che definisce l’hate speech come riferito a «tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza».
Partendo da tale dato enunciativo, la consolidata giurisprudenza della Corte europea in tema di hate speech si esprime, innanzitutto, nel senso che l’istigazione all’odio non richiede necessariamente il riferimento ad atti di violenza o delitti già consumati in danno del ricorrente, in quanto i pregiudizi rivolti alle persone ingiuriando, ridicolizzando o diffamando talune frange della popolazione e isolandone gruppi specifici – soprattutto se deboli – o incitando alla discriminazione, sono sufficienti perché le autorità interne privilegino la lotta contro il discorso diffamatorio, a fronte di una libertà di espressione irresponsabilmente esercitata e che provoca offesa alla dignità e alla sicurezza di queste parti o gruppi della popolazione (Corte Edu, Féret c. Belgio, ric. n. 15615/07, 16 luglio 2009, § 73).
In secondo luogo, l’identificazione in concreto dell’incitamento alla discriminazione, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, passa attraverso il riscontro di diversi indicatori, tra i quali assume particolare rilevanza il modo in cui la comunicazione è effettuata, il linguaggio usato nell’espressione aggressiva, il contesto in cui è inserita, il numero delle persone cui è rivolta l’informazione, la posizione e la qualità ricoperta dall’autore della dichiarazione e la posizione di vulnerabilità o meno del destinatario della stessa.
Quanto al fondamento normativo in cui ricade il contrasto all’hate speech nella giurisprudenza della Corte Edu, un approccio risalente suggeriva che le questioni attinenti alla libertà di parola potessero essere adeguatamente trattate sulla base dell’art. 17.
Secondo tale approccio, la libertà d’espressione non può essere considerata senza limiti, se esercitata da membri di organizzazioni o partiti che si propongono la distruzione di valori e principi protetti dalla Convenzione, costituendo siffatte condotte un abuso del diritto che giustifica l’ingerenza statuale (Corte Edu, Schimanek c. Austria, ric. n. 32307/96, 1° febbraio 2000; Corte Edu, Ivanov c. Russia,ric. n. 35222/04, 20 febbraio 2007, in tema di antisemitismo; Corte Edu, Norwood c. Regno Unito, ric. n. 23131/03, 16 novembre 2004, in tema di istigazione all’odio religioso). Nella delineata prospettiva si pone il significativo filone di decisioni di inammissibilità per contrasto con l’art. 17 in tema di ricorsi proposti per allegata violazione dell’art. 10 in materia di istigazione all’odio razziale. Già la decisione della Commissione europea dei diritti dell’uomo Glimmerveen (Commissione europea dei diritti dell’uomo, Glimmerveen e Hagenbeek c. Olanda, ricc. nn. 8148/78 e 8406/78, 11 ottobre 1979) aveva escluso che la condanna per un caso di istigazione alla discriminazione tra i cittadini di diverse etnie costituisse un’indebita interferenza nella loro libertà di espressione, apparendo anzi la condanna, con riferimento all’art. 10, proporzionata e necessaria in una società democratica alla luce dell’art. 17.
Un diverso e più recente approccio suggerisce, invece, che tutti i casi di libertà di espressione siano trattati alla luce dell’art. 10, § 1, e che ogni ingerenza con il diritto sia vagliata alla luce del test di necessità dell’art. 10, § 2.
Seguendo questo secondo schema, la Corte ha statuito che espressioni concrete di incitamento all’odio, offensive per individui e particolari gruppi sociali, non ricadono nello scopo dell’art. 10 della Convenzione e, con riferimento agli standard del secondo paragrafo dell’articolo, ha evidenziato come «la tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull’intolleranza (inclusa quella religiosa)» (Corte Edu, Gunduz c. Turchia, ric. n. 35071/97, 4 dicembre 2003, §§ 40-41). Nel già citato caso Féret, relativo alla condanna penale di un politico per aver tenuto discorsi attinenti ai fenomeni migratori istiganti all’odio verso le comunità musulmane, la Corte ha ribadito che è cruciale, per i politici che si esprimono in pubblico, evitare commenti che possano favorire l’intolleranza, e ha concluso che, nel caso concreto, a sostegno dell’interferenza con la libertà di espressione era riconoscibile un bisogno sociale impellente di proteggere l’ordine pubblico e i diritti della comunità degli immigrati, per evitare disordini e sfiducia verso le istituzioni. Ancora, in applicazione dell’art. 10, la Corte ha dichiarato che, in generale, le eccezioni alla libertà di espressione vanno interpretate in senso restrittivo, e la necessità di ogni restrizione dev’essere adeguatamente motivata, come ribadito in molti casi coinvolgenti la Turchia. In essi, la Corte ha escluso il bisogno di restringere la libertà di
espressione in una società democratica e ha negato che anche articoli di stampa o creazioni di fantasia letteraria costituissero istigazione all’odio, anche quando vi fosse offerta un’immagine particolarmente negativa delle atrocità commesse dalle autorità interne, al punto da provocare un forte risentimento nel lettore (Corte Edu, Alinak c. Turchia, ric. n. 34520/97, 29 marzo 2005), ma senza ricadere in istigazione all’odio nel senso sopra delineato.
In estrema sintesi, può affermarsi che la Corte EDU esclude il bisogno di restringere la libertà di espressione in una società democratica quando si tratti della promozione di valori coessenziali alla tutela dei diritti dell’uomo, soprattutto in presenza della loro minaccia o restrizione, ritenendo, invece, legittima e necessaria l’ingerenza statuale punitiva in presenza di manifestazioni d’odio funzionali proprio alla compressione dei principi di uguaglianza e di libertà.
Nel quadro così sommariamente delineato, il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è costituito dal fatto che essa non sia avulsa da un nucleo di verità, non trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui (Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020) e non veicoli odiose discriminazioni, fondate su caratteristiche personali dei soggetti coinvolti, sempre che sussista un rapporto di leale confronto tra l’opinione critica ed il fatto che la genera, e sia accertata la rilevanza sociale dell’argomento e la correttezza di espressione (Sez. 5, n. 2247 del 02/07/2004; Sez. 1, n. 23805 del 10/06/2005).
Corte di Cassazione Penale sentenza Sez. 5 n. 25759 del 2022