La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente le espressioni denigratorie e di dissenso del lavoratore rispetto all’azienda affermate in una conversazione intervenuta in una chat su Facebook qualora la condotta contestata sia idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento.
La fattispecie oggetto di esame concerne il licenziamento intimato da parte di un azienda al dipendente per le offese rivolte all’amministratore delegato, nel corso di una conversazione intervenuta in una chat chiusa o privata su Facebook. Il licenziamento sarebbe stato intimato al lavoratore per giusta causa ovvero per lesione del vincolo fiduciario a fronte di ingiurie, minacce e denigrazione dell’azienda e del suo amministratore espresso nel corso della conversazione su una chat di Facebook avente ad oggetto temi di natura sindacale. Ulteriore valutazione della condotta contestata al lavoratore concerne anche i limiti del diritto di critica.
Invero, ai fini della giusta causa di licenziamento, la condotta del lavoratore deve essere valutata avendo riguardo agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass., n. 6498 del 2012; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 25144 del 2010), nella cui cornice devono essere collocate e contemperate le esigenze di tutela della dignità della persona rispetto a condotte offensive o diffamatorie e degli altri beni o interessi costituzionalmente rilevanti.
La condotta diffamatoria lede il bene giuridico della reputazione, cioè l’opinione positiva che i consociati hanno di una determinata persona, dal punto di vista etico e sociale.
La lesione della reputazione, in quanto legata al contesto sociale di riferimento, presuppone e richiede la comunicazione con più persone, cioè la presa di contatto dell’autore con soggetti diversi dalla persona offesa per renderli edotti e partecipi dei fatti lesivi della reputazione di quest’ultimo.
Ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito privato, cioè all’interno di una cerchia di persone determinate, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie oggetto di comunicazione, ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse.
L’art. 15 della Cost. definisce inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, dovendosi intendere la segretezza come espressione della più ampia libertà di comunicare liberamente con soggetti predeterminati, e quindi come pretesa che soggetti diversi dai destinatari selezionati dal mittente non prendano illegittimamente conoscenza del contenuto di una comunicazione.
La tutela della segretezza presuppone, oltre che la determinatezza dei destinatari e l’intento del mittente di escludere terzi dalla sfera di conoscibilità del messaggio, l’uso di uno strumento che denoti il carattere di segretezza o riservatezza della comunicazione e come ribadito dalla Corte Cost. nella sentenza n. 20 del 2017, il diritto tutelato dall’art. 15 della Cost. “comprende tanto la corrispondenza quanto le altre forme di comunicazione, incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia”.
Quindi l‘esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private, con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati.
I messaggi che circolano attraverso le nuove “forme di comunicazione”, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile. Tale caratteristica è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, ove anche intesa in senso lato, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale.
L’esigenza di tutela della segretezza delle forme di comunicazione privata o chiusa preclude l’accesso di estranei al contenuto delle stesse, la rivelazione e l’utilizzabilità del contenuto medesimo, in qualsiasi forma, prevedendo l’ordinamento specifiche ipotesi delittuose di violazione della corrispondenza, rivelazione del contenuto della stessa e di accesso abusivo a sistemi informatici, (cfr. artt. 616 e 617 C.p.)
Nel caso di specie, si deduce la mancanza del carattere illecito, da un punto di vista oggettivo e soggettivo, della condotta ascritta al lavoratore in quanto la conversazione all’interno della chat era intesa e voluta come privata e riservata, riconducibile piuttosto alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente.
Si tratta di un ambiente ad accesso limitato, con esclusione della possibilità che quanto detto in quella sede potesse essere veicolato all’esterno, il che porta ad escludere qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria.
Corte di Cassazione Ordinanza 10 settembre 2018, n. 21965