Fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale
ex art. 517 ter C.p.
Salva l’applicazione degli articoli 473 e 474 chiunque, potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale, fabbrica o adopera industrialmente oggetti o altri beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a euro 20.000.
norma che si pone in sostanziale continuità con il reato di cui all’art. 127 del d. Igs. n. 30 del 2005 (Codice della proprietà industriale), che a sua volta trovava un suo antecedente nel reato di frode brevettuale di cui all’art. 88 del R.D. n. 1127 del 1939 (Testo delle disposizioni legislative in materia di brevetti per invenzioni industriali).
La previsione di cui al comma 2 dell’art. 517 ter C.p., che deve essere letta unitamente a quella di cui al comma 1, recita:
“alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto, introduce nel territorio dello Stato, detiene per la vendita, pone in vendita con offerta diretta ai consumatori o mette comunque in circolazione i beni di cui al primo comma“.
Orbene, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. 3, n. 24141 del 07/02/2019), dalla lettura congiunta dei due commi si evince che si tratta di due fattispecie che, sebbene contenute nel medesimo articolo, introdotto dalla Legge n. 99 del 2009 e rubricato “fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale“, tuttavia presentano caratteristiche strutturali differenti, risultando il reato di cui al primo comma incentrato sulla fabbricazione o sull’utilizzo industriale di beni realizzati mediante l’usurpazione o comunque la violazione di un titolo di proprietà industriale, mentre la fattispecie di cui al comma 2, rispetto ai medesimi beni, sanziona le differenti condotte della introduzione nello Stato, della detenzione per la vendita, o comunque del porre in vendita, richiedendosi inoltre in tal caso il “fine di trarne profitto“, che invece non è richiesto ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo della previsione di cui al comma 1, per la quale occorre unicamente che l’agente sia nella condizione di poter “conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale“.
Le due fattispecie introdotte dall’art. 517 ter C.p., pur essendo accomunate sia dall’oggetto materiale del reato, individuato nei beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione di esso, sia dal trattamento sanzionatorio, differiscono per il regime della procedibilità, in quanto solo la previsione di cui al comma 1 dispone che il reato sia procedibile a querela della persona offesa, mentre un’analoga specificazione non si rinviene nel comma 2.
Come si evince dalla clausola di salvezza presente nell’incipit della norma (“fatta salva applicazione degli articoli 473 e 474 C.p.“), le fattispecie in esame presentano un rapporto di interferenza rispetto alle previsioni di cui agli art. 473 C.p. (contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi, ovvero di brevetti, modelli e disegni) e 474 C.p. (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi), avendo la giurisprudenza di legittimità evidenziato al riguardo che ciò che distingue l’art. 517 ter C.p. dai reati ex art. 473 e 474 C.p., è la dimensione degli interessi coinvolti: pubblici nel primo caso (cioè la fede pubblica, che si intende tutelare contro specifici attacchi insiti nella contraffazione o alterazione del marchio o di altri segni distintivi o del brevetto, disegni o modelli industriali in grado di ingenerare confusione nei consumatori e da nuocere al generale affidamento), privati nel secondo (patrimonio), ricorrendo cioè il reato di cui all’art. 517 ter C.p. ove sia ravvisabile solo uno specifico interesse patrimoniale di un privato, leso dall’abusiva utilizzazione di un prodotto da lui brevettato (cfr. in termini Cass., Sez. 3, n. 8653 del 19/11/2015 e da ultimo Cass., Sez. 5, n. 23709 del 18/05/2021).
Il reato di cui all’art. 517 ter C.p. tutela esclusivamente il patrimonio e dunque una sfera di interessi esclusivamente privati (circostanza questa chiaramente segnalata dalla procedibilità a querela di parte) e ha carattere sussidiario rispetto alle ipotesi di reato previste dal codice penale (tra cui appunto quelle ex art. 473 e 474 C.p.), nel senso che prescinde dalla falsità, rifacendosi alla mera, artificiosa equivocità dei contrassegni, marchi ed indicazioni illegittimamente usati, tali da ingenerare la possibilità di confusione con prodotti similari da parte dei consumatori comuni, e ricorre tanto nell’ipotesi dei prodotti realizzati a imitazione di quelli protetti dal titolo di privativa e quindi in violazione del medesimo, quanto in quella della fabbricazione, utilizzazione e vendita di prodotti “originali” da parte di colui che non ne è titolato.
Ciò posto, stante comunque la comune matrice strutturale delle fattispecie, distinte rispetto al bene giuridico protetto, ma sovrapponibili, sia pure in parte, in ordine ai comportamenti penalmente rilevanti, può ritenersi comunque riferibile anche al reato di cui all’art. 517 ter comma 2 C.p. l’affermazione della giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. 5, n. 29965 del 15/09/2020 e Sez. 2, n. 28847 del 18/06/2015), formulata con riferimento al delitto di cui all’art. 473 C.p., secondo cui non assume rilievo, al fine di escludere la punibilità, la clausola di riparazione prevista dall’art. 241 del D.Igs. n. 30 del 2005, che consente la fabbricazione e la messa in commercio, come modelli e disegni, di parti di ricambio di un prodotto complesso coperto da privativa, ciò in quanto la legge accorda una speciale tutela al brevetto e la tutela non può essere aggirata attraverso diciture artatamente “attestative” circa l’indebito uso del prodotto tutelato, quali “prodotto non originale” o simili, dovendosi ritenere pur sempre sanzionato, anche in caso di mancata contraffazione del marchio, l’indebito sfruttamento di un segno distintivo altrui mediante la riproduzione, in modo parassitario, dei suoi connotati essenziali, che vanno salvaguardati (cfr. in termini Cass., Sez. 3, n. 14812 del 30/11/2016).
A ciò deve aggiungersi che, come già anticipato, sul versante soggettivo, le due fattispecie di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 517 ter C.p. differiscono per la necessità, ai fini dell’integrazione della previsione di cui al comma 2, del dolo specifico, integrato dal fine dell’agente di trarre un profitto, finalità che deve connotare le condotte di introduzione nello Stato, detenzione per la vendita, porre in vendita con offerta diretta ai consumatori o di messa in circolazione dei beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione di esso, mentre tale finalità non è richiesta per le condotte sanzionate dal comma 1 (ovvero fabbricare o adoperare industrialmente oggetti o altri beni).
Ora, se ai fini della configurabilità del reato di cui al comma 2 è necessario accertare il fine di trarre un profitto rispetto alle condotte materiale descritte dalla norma incriminatrice, nondimeno, in ordine al parametro dell’usurpazione e della violazione del titolo di proprietà industriale dei beni, resta fermo il criterio di imputazione soggettiva costituito dalla possibilità dell’agente di conoscere l’esistenza del titolo di proprietà industriale, criterio richiamato espressamente dal comma 1, ma che evidentemente vale anche rispetto al medesimo oggetto materiale delle condotte sanzionate dal comma 2, essendo cioè anche a tal fine sufficiente la conoscibilità dell’esistenza del titolo di proprietà industriale sui beni cui si riferisce l’introduzione nello Stato, la detenzione per la vendita, il porre in vendita con offerta diretta ai consumatori o la messa in circolazione, conoscibilità, la cui prova deve essere ovviamente ancorata a elementi fattuali concreti..
Corte di Cassazione Sez. 3 n. 40312 Anno 2021