I figli choosy e assegno di mantenimento
L’assegno di mantenimento può essere revocato nei confronti dei figli choosy (o “schizzinosi“)?
Secondo giurisprudenza consolidata (per tutte, Cass. n 4765 del 2002; Cass., n. 1830 del 2011), ai fini dell’esonero dell’assegno per il figlio maggiorenne, è necessario che il mancato svolgimento di attività lavorativa dipenda da inerzia o da rifiuto ingiustificato.
Pur non menzionando gli artt. 147 e 155 cod. civ. espressamente i figli maggiorenni fra i destinatari dell’obbligo di mantenimento posto a carico dei genitori, la prevalente dottrina e la giurisprudenza di legittimità dall’ampia formulazione di dette norme, nonchè dal riscontro e conferma che le stesse trovano nell’art. 30 Cost., trassero la regola che la relativa obbligazione non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte dei figli, ma perdura indipendentemente dall’età di costoro, per un periodo di tempo che, pur non potendo essere predeterminato, fu sistematicamente fatto coincidere con il completamento degli studi e con il conseguimento del titolo relativo; ovvero con l’avviamento degli stessi ad una professione, ad un arte, o ad un mestiere confacente, per quanto possibile, alla condizione sociale della famiglia (Cass. n. 87 e n. 124/1962).
Questi principi furono estesi alla disciplina del divorzio introdotto dalla L. n. 898 del 1970, il cui art. 6 ha riprodotto in termini nuovamente generici – e senza alcun’altra specificazione – l’obbligo (anche) del genitore non affidatario di contribuire al mantenimento dei figli.
La giurisprudenza successiva ha ulteriormente approfondito il regime dell’obbligazione dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli maggiorenni secondo le regole dell’art. 148 cod. civ. pervenendo ai seguenti principi, più volte ribaditi:
1) il giudice di merito non può prefissare un termine a tale obbligo di mantenimento, atteso che il limite di persistenza dello stesso va determinato, non sulla base di un termine astratto (pur se desunto dalla media della durata degli studi in una determinata facoltà universitaria e/o dalla normalità del tempo mediamente occorrente ad un giovane laureato, in una data realtà economica, affinchè questo possa trovare impiego), bensì sulla base (soltanto) del fatto che il figlio, malgrado i genitori gli abbiano assicurato le condizioni necessarie (e sufficienti) per concludere gli studi intrapresi e conseguire il titolo indispensabile ai fini dell’accesso alla professione auspicata, non abbia saputo trame profitto, per inescusabile trascuratezza o per libera (ma discutibile) scelta delle opportunità offertegli; ovvero non sia stato in grado di raggiungere l’autosufficienza economica per propria colpa;
2) configurandosi quest’ultima quale fatto estintivo di una obbligazione “ex lege“, spetta al genitore interessato alla declaratoria della sua cessazione, fornire la prova di uno “status” di autosufficienza economica del figlio, consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato; ovvero che il mancato svolgimento di un’attività lavorativa dipende da un suo atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato (Cass. n. 407/2007; n. 15756/2006; n. 8221/2006);
3) il relativo accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post – universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione, investendo impegno personale ed economie familiari (Cass. 23673/2006; 4765/2002).
E d’altra parte la prova dell’indipendenza economica può fondarsi su presunzioni, quali esemplificativamente i mezzi economici di cui il figlio si avvale unitamente al suo tenore di vita, l’essere stato avviato ad attività lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza economica, o comunque posto nelle concrete condizioni per poter addivenire alla autosufficienza economica, di cui egli non abbia, poi, tratto profitto per sua colpa, o ancora, il matrimonio e la convivenza in altro autonomo nucleo familiare (Cass. n. 24498/2006);
4) Per converso, una volta legittimamente cessato l’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne – per avere espletato attività lavorativa, ovvero per altre cause che hanno determinato il venir meno del relativo presupposto (matrimonio o altro) – esso non può risorgere che nella forma del più ristretto dovere degli alimenti, fondato su condizioni sostanziali e procedurali affatto diverse (Cass. n. 22477/2006, n. 26259/2005, n. 12477/2004).
Questo quadro normativo è stato sostanzialmente recepito dal nuovo art. 155 quinquies cod. civ. introdotto dalla L. n. 54 del 2006, secondo cui “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico“. (Cassazione, sentenza n. 1830 del 26/01/2011)
Nel caso di specie l’assegno di mantenimento viene revocato nei confronti della figlia maggiorenne facendo riferimento all’età (anni 37) e agli studi da questa effettuati, ipotizzando che essa abbia ricevuto offerte di lavoro, benchè non pienamente rispondenti alle sue aspirazioni e non le abbia accettate.
Corte di Cassazione, ordinanza n. 7970 del 02/04/2013