Sospetti ed indizi
La distinzione tra sospetti ed indizi è fondamentale soprattutto qualora l’affermazione di responsabilità è stata fondata su un elemento indiziario secondo le regole interpretative e valutative dettate dall’art. 192, comma 2, C.p.P.
Al riguardo, appare utile sottolineare la distinzione concettuale tra “sospetti” ed “indizi“.
Il “sospetto” è una nozione che oscilla tra due estremi semantici, ovvero tra il significato di fenomeno soggettivo, congettura, quindi di ipotesi senza prove, o meglio, alla ricerca di prove, ed il significato di indizio equivoco, e quindi debole; comunque, il concetto connota gli elementi suscettibili di assecondare distinte ed alternative ipotesi, anche contrapposte, nella spiegazione dei fatti oggetto di prova.
Al contrario, gli “indizi” sono gli elementi probatori raggiunti attraverso un ragionamento inferenziale, che partendo da un fatto noto (indizio) conduce ad un fatto ignoto (il fatto da provare – in tal caso, la partecipazione dell’imputato al furto -), in virtù dell’applicazione di regole scientifiche ovvero di massime di esperienza (Cass., Sez. 5, n. 17231 del 17/01/2020: “In tema di prova, gli “indizi”, suscettibili di valutazione ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., sono elementi di fatto noti dai quali desumere, in via inferenziale, il fatto ignoto da provare sulla base di regole scientifiche ovvero di massime di esperienza, mentre il “sospetto” si identifica con la congettura, un fenomeno soggettivo di ipotesi con prove da ricercare, ovvero con l’indizio debole o equivoco, tale da assecondare distinte, alternative – ed anche contrapposte – ipotesi nella spiegazione dei fatti oggetto di prova“).
Va, altresì, ribadito che gli indizi a fini di prova si differenziano dalle mere congetture (dimensione più debole di mero sospetto) perché sono costituiti da fatti ontologicamente certi che, collegati tra loro, sono suscettibili di una ben determinata interpretazione (Cass., Sez. 2, n. 43923 del 28/10/2009), devono corrispondere a dati di fatto certi – e, pertanto, non consistenti in mere ipotesi, congetture o giudizi di verosimiglianza – e devono, ex art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. essere gravi – cioè in grado di esprimere elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto – precisi – cioè non equivoci – e concordanti, cioè convergenti verso l’identico risultato. Requisiti tutti che devono rivestire il carattere della concorrenza, nel senso che in mancanza anche di uno solo di essi gli indizi non possono assurgere al rango di prova idonea a fondare la responsabilità penale. Inoltre, il procedimento della loro valutazione si articola in due distinti momenti: il primo diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione di ciascuno di essi, isolatamente considerato, il secondo costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità. Il giudice di legittimità deve verificare l’esatta applicazione dei criteri legali dettati dall’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. e la corretta applicazione delle regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori (Cass., Sez. 5, n. 4663 del 2014).
Inoltre, va rammentato che il sindacato di legittimità sulla gravità, precisione e concordanza della prova indiziaria è limitato alla verifica della correttezza del ragionamento probatorio del giudice di merito, che deve fornire una ricostruzione non inficiata da manifeste illogicità e non fondata su base meramente congetturale in assenza di riferimenti individualizzanti, o sostenuta da riferimenti palesemente inadeguati (Cass., Sez. 4, n. 48320 del 12/11/2009); in materia di prova indiziaria, il controllo della Cassazione sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, se non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, costituite da giudizi ipotetici a contenuto generale, indipendenti dal caso concreto, fondati su ripetute esperienze, ma autonomi da queste, può però avere ad oggetto la verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo “id quod plerumque accidit”, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Cass., Sez. 1, n. 18118 del 11/02/2014).
Corte di Cassazione, Sez. V, 14 settembre 2020, n. 28559