Il sistema della protezione dello straniero in Italia

Il sistema della protezione dello straniero in Italia transessuale il fenomeno del transessualismo Rapporti significativi tra il minore e Rettificazione di attribuzione di sesso Principio di colpevolezza Ignoranza dell'età della persona offesa infondatezza della notizia di reato La colpevolezza Furti minori procedura penale minorile Fase delle indagini preliminari Principio di presunzione di innocenza Domini Principio di determinatezza edifici in stato di abbandono Invasione La moglie adultera Offesa Pene per la diffamazione Conoscenza Diffusione del proprio Surrogazione di Deroghe al bilanciamento delle circostanze Il reato di plagio Verbale di conciliazione giudiziale Diversa qualificazione del fatto OPG Sanzione accessoria della revoca della patente del custode Pignorabilità dei redditi da lavoro Avviso orale rafforzato Gravita della diffamazione Reddito di inclusione Abuso di ufficio Cognome del figlio Modifica dell’originaria imputazione Messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi Responsabilità civile dei magistrati Risarcimento del danno Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale Esercizio del commercio in aree di valore culturale Codice dei beni culturali Limiti al diritto di manifestare liberamente La libertà di manifestazione del pensiero La tutela dei beni culturali Prostituzione volontaria Immobili ed aree di notevole interesse pubblico Reddito di cittadinanza Diffamazione a mezzo stampa giudizio abbreviato e immediato Controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni Libertà e la segretezza della corrispondenza violenza sessuale di gruppoIl sistema della protezione dello straniero in Italia

Il sistema della protezione dello straniero in Italia è articolato su tre livelli: il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria.

Mentre le prime due forme di protezione trovano fonte diretta nelle normative internazionali ed europee, la protezione umanitaria è un istituto riconducibile a previsioni dell’ordinamento interno.

Lo status di rifugiato è regolato dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 24 luglio 1954, n. 722, esplicitamente richiamata dalle rilevanti direttive dell’Unione europea come «pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati» (direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, poi abrogata dalla direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta). Tale status è riconosciuto a chi si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza o la dimora abituale e non voglia farvi ritorno «per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale» (art. 2, lettera d, della direttiva 2011/95/UE che riprende la Convenzione di Ginevra).

La «protezione sussidiaria» è regolata dalle citate direttive UE ed è accordata a chi non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, correrebbe «un rischio effettivo di subire un grave danno» (art. 2, lettera f, della direttiva 2011/95/UE), con ciò intendendosi la pena di morte o l’essere giustiziato, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, ovvero la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (art. 15 della direttiva 2011/95/UE).

Quanto alla «protezione umanitaria», l’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 115/2008/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, prevede la possibilità – non già l’obbligo – per gli Stati membri di estendere l’ambito delle forme di protezione tipiche sino a ricomprendere «motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura», rilasciando allo scopo un apposito permesso di soggiorno. A detta facoltà, gli Stati membri hanno dato attuazione nei modi più vari.

Dunque, lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, specificazione della medesima voce «protezione internazionale», sono accordati in osservanza di obblighi europei e internazionali: il primo per proteggere la persona da atti di persecuzione; la seconda per evitare che questa possa subire un grave danno. Viceversa, la protezione umanitaria è rimessa in larga misura alla discrezionalità dei singoli Stati, per rispondere a esigenze umanitarie, caritatevoli o di altra natura.

Col decreto-legge in esame, il legislatore nazionale è intervenuto solo sull’istituto della protezione umanitaria, senza incidere su quella dovuta in base a obblighi europei e internazionali.

Nell’ordinamento italiano, la protezione umanitaria fu immessa per la prima volta a opera dell’art. 14, comma 3, della legge 30 settembre 1993, n. 388, recante «Ratifica ed esecuzione: a) del protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i Governi degli Stati dell’Unione economica del Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, con due dichiarazioni comuni; b) dell’accordo di adesione della Repubblica italiana alla convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione del summenzionato accordo di Schengen, con allegate due dichiarazioni unilaterali dell’Italia e della Francia, nonché la convenzione, il relativo atto finale, con annessi l’atto finale, il processo verbale e la dichiarazione comune dei Ministri e Segretari di Stato firmati in occasione della firma della citata convenzione del 1990, e la dichiarazione comune relativa agli articoli 2 e 3 dell’accordo di adesione summenzionato; c) dell’accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese relativo agli articoli 2 e 3 dell’accordo di cui alla lettera b); tutti atti firmati a Parigi il 27 novembre 1990», che ha modificato le condizioni di soggiorno degli stranieri regolate dal decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1990, n. 39.

Il citato art. 14 della legge n. 388 del 1993 configurava la protezione umanitaria come ipotesi di deroga al rigetto (e alla revoca) della domanda di permesso di soggiorno, deroga consentita appunto quando ricorressero seri motivi di carattere umanitario. Tale articolo, infatti, prevedeva che un provvedimento di rifiuto o di revoca del permesso di soggiorno potesse essere adottato quando lo straniero non soddisfacesse le condizioni di soggiorno applicabili nel territorio di uno degli Stati contraenti, salvo che ricorressero «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» (art. 4, comma 12-ter, del d.l. n. 416 del 1989).

Questo originario riferimento alle esigenze di carattere umanitario, suscettibili di evitare il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno, è stato testualmente ripreso dall’art. 5, comma 6, della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), per poi sedimentarsi nell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione, il cui testo prevedeva, fino all’entrata in vigore del decreto-legge in esame, che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno potessero essere adottati quando lo straniero non soddisfacesse le condizioni di soggiorno salva la ricorrenza di «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Il permesso di soggiorno per motivi umanitari era rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione.

A seguito dell’introduzione della protezione internazionale (a opera del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, intitolato «Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta»), nelle due forme del riconoscimento dello status di rifugiato e di beneficiario di protezione sussidiaria, era altresì previsto che, in caso di non accoglimento della domanda di protezione internazionale, le competenti commissioni territoriali trasmettessero gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione, qualora sussistessero «gravi motivi di carattere umanitario» (art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, intitolato «Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato»).

Per completare il quadro normativo immediatamente precedente all’entrata in vigore della disposizione impugnata, occorre ancora menzionare che, accanto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, il t.u. immigrazione prevedeva altresì alcune fattispecie particolari di permesso di soggiorno (per motivi di protezione sociale, ex art. 18; per particolare sfruttamento lavorativo, ex art. 22, comma 12-quater; per le vittime di violenza domestica, ex art. 18-bis), in cui erano comunque evidenti le esigenze di carattere umanitario sottese alle singole fattispecie.

La protezione umanitaria ha ricevuto ampia applicazione nella prassi giurisprudenziale, che ne ha via via precisato i contorni, grazie all’attività interpretativa della giurisprudenza di merito e di legittimità che ha assicurato l’effettività del quadro normativo ora brevemente descritto alla luce delle esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione e dagli altri strumenti di tutela europea e internazionale.

Secondo la Corte di cassazione, in particolare, il permesso di soggiorno per motivi umanitari si collega al diritto di asilo costituzionale, di cui all’art. 10, terzo comma, Cost., oltre che alla «protezione complementare» che la normativa europea consente agli Stati membri di riconoscere, anche per motivi umanitari o caritatevoli, alle persone che non possono rivendicare lo status di rifugiato e neppure beneficiare della protezione sussidiaria, benché siano minacciate nei propri diritti fondamentali in caso di rinvio nel paese d’origine (così, tra le molte, Cassazione civile, sezioni unite, sentenze 11 dicembre 2018, n. 32177 e n. 32044). Inoltre, nella giurisprudenza di legittimità immediatamente anteriore alle modifiche introdotte dal decreto impugnato, i «seri motivi umanitari» erano tutti accomunati dallo scopo di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza concernente la salvaguardia di diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 12 novembre 2018, n. 28996).

In tale cornice normativa, è intervenuto l’impugnato art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 che ha eliminato dall’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione il riferimento ai «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» e, più in generale, ha espunto dall’ordinamento ogni riferimento al permesso di soggiorno «per motivi umanitari» contenuto in diversi testi normativi. Tuttavia, la medesima disposizione ha contestualmente delineato una serie di «casi speciali di permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario».

In sintesi, per effetto dell’impugnato art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, che scompare come istituto generale e atipico, viene sostituito dai seguenti permessi di soggiorno: a) permessi di soggiorno per «casi speciali» (ipotesi di cui agli artt. 18, 18-bis e 22, comma 12-quater, del t.u. immigrazione); b) permesso di soggiorno per «cure mediche» (ipotesi di cui all’art. 19, comma 2, lettera d-bis); c) permesso di soggiorno per calamità (ipotesi di cui all’art. 20-bis); d) permesso di soggiorno per motivi di particolare valore civile (ipotesi di cui all’art. 42-bis).

I permessi di soggiorno per «casi speciali» (ipotesi di cui agli artt. 18, 18-bis e 22, comma 12-quater, del t.u. immigrazione), sostituiscono i precedenti permessi di soggiorno «per motivi di protezione sociale», «per vittime di violenza domestica» e «per particolare sfruttamento lavorativo», dei quali mantengono sostanzialmente invariata la portata.

In particolare, lo speciale permesso di cui all’art. 18 del t.u. immigrazione è rilasciato dal questore quando siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’organizzazione criminale dedita allo sfruttamento della prostituzione, al fine di consentirgli di sottrarsi alla violenza e a detti condizionamenti nonché di partecipare a un programma di assistenza e integrazione sociale.

Il permesso di cui al successivo art. 18-bis è rilasciato dal questore a fronte di accertate situazioni di violenza o abuso per consentire alla vittima di sottrarsi alla violenza domestica, con ciò intendendosi «uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

Il permesso di cui all’art. 22, comma 12-quater, è rilasciato dal questore nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo, allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro.

Il permesso di soggiorno per «cure mediche» (di cui all’art. 19, comma 2, lettera d-bis) è rilasciato dal questore agli stranieri che versino in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione proveniente da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, e tali da determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi in caso di rientro nel paese di origine o di provenienza.

Il permesso di soggiorno per calamità (di cui all’art. 20-bis) è rilasciato dal questore quando il paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza.

Il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile (di cui all’art. 42-bis), infine, deve essere autorizzato dal Ministro dell’interno, su proposta del prefetto competente, ed è rilasciato nei casi in cui lo straniero abbia compiuto atti di particolare valore civile.

Accanto a dette ipotesi, il legislatore, modificando l’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, ha poi introdotto un nuovo permesso di soggiorno per «protezione speciale» per i casi in cui non si accolga la domanda di protezione internazionale dello straniero e al contempo ne sia vietata l’espulsione o il respingimento, nell’eventualità che questi «possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione» (art. 19, comma 1, del t.u. immigrazione), oppure esistano fondati motivi di ritenere che rischi di essere sottoposto a tortura (art. 19, comma 1.1., del t.u. immigrazione).

In sintesi, con l’impugnato art. 1 del d.l. n. 113 del 2018 il legislatore è intervenuto sulle qualifiche che danno titolo ai permessi di soggiorno sul territorio nazionale specificando, in un ventaglio di ipotesi nominate, i «seri motivi di carattere umanitario» prima genericamente enunciati all’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione.

Non vi è alcun dubbio che tale intervento sia esercizio di competenze legislative esclusive dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, Cost.

Come osservato dalle stesse ricorrenti, viene innanzitutto in rilievo la materia «immigrazione», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera b), Cost. Essa infatti comprende, come la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito, non solo gli «aspetti che attengono alle politiche di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale» (sentenza n. 2 del 2013, così come sentenze n. 61 del 2011, n. 299 del 2010 e n. 134 del 2010), ma, ed è ciò che qui rileva, le condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno (sentenza n. 156 del 2006).

La Corte ha anche più volte precisato che il legislatore statale gode di «ampia» discrezionalità nella disciplina di detta materia (sentenze n. 277 del 2014, n. 202 del 2013 e n. 172 del 2012), dato che essa è «collegata al bilanciamento di molteplici interessi pubblici» (tra le molte, sentenze n. 172 del 2012 e n. 250 del 2010); e che, pur disponendo di tale ampia discrezionalità, il legislatore naturalmente resta sempre tenuto al rispetto degli obblighi internazionali, sulla base dell’art. 117, primo comma, Cost., e costituzionali (sentenze n. 202 del 2013, n. 172 del 2012 e n. 245 del 2011), compreso il criterio di ragionevolezza intrinseca (tra le altre, sentenza n. 172 del 2012).

Le medesime disposizioni impugnate, peraltro, sono anche espressione della competenza legislativa statale in materia di «diritto di asilo», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., che nell’ordinamento costituzionale italiano copre uno spettro più ampio rispetto al diritto dei rifugiati di cui alla citata Convenzione di Ginevra. Per la definizione del contenuto di tale materia, infatti, ci si deve riferire all’art. 10, terzo comma, Cost., che appunto riconosce il «diritto d’asilo nel territorio della Repubblica» come diritto fondamentale dello straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».

A favore di un inquadramento delle disposizioni impugnate nella materia «diritto di asilo» depone la consolidata giurisprudenza di legittimità che, in riferimento alla disciplina previgente, aveva ritenuto che il diritto di asilo costituzionale ex art. 10, terzo comma, Cost. avesse ricevuto integrale attuazione grazie al concorso dei tre istituti concernenti la protezione dei migranti: la tutela dei rifugiati, la protezione sussidiaria di origine europea e la protezione umanitaria (tra le molte, Corte di Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 maggio 2019, n. 13082; sezione sesta civile, ordinanza 19 aprile 2019, n. 11110; sezione sesta civile, ordinanza 4 agosto 2016, n. 16362). Di conseguenza, ogni intervento legislativo che, indipendentemente dal suo contenuto, incida, come quello oggetto delle presenti questioni di costituzionalità, sull’uno o sull’altro dei tre istituti che danno vita nel loro complesso alla disciplina dell’asilo costituzionale deve per ciò stesso essere ascritto alla materia denominata «diritto di asilo», di esclusiva competenza dello Stato, in base all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.

CORTE COSTITUZIONALE sentenza n. 194/2019

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