La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la sussistenza del reato di violenza sessuale nell’ipotesi in cui la vittima indossa i pantaloni.
Sul punto si registrano precedenti giurisprudenziali discordanti che hanno creato accese discussioni in merito alla corrispondenza tra il reato di violenza sessuale ex art. 609 bis C.p. con l’ipotesi fattuale di indossare pantaloni che rende difficile il raggiungimento delle parti intime della vittima. In particolare occorre ricordare la famosa sentenza, sebbene molto datata, della Corte di Cassazione, 6 novembre 1998 n. 1636, che escludeva il reato di violenza sessuale affermando: “deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa“; mentre con riguardo al fatto che la vittima non aveva opposto resistenza temendo di subire gravi offese alla sua incolumità fisica, la Corte di legittimità osservava che è istintivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla e che è illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro, che è una grave violenza alla persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica.
Tali principi sono stati superati nel corso degli anni, ribaltando la realtà giuridica e affermando che sussiste il delitto di violenza sessuale ex art. 609 bis C.p. anche nell’ipotesi in cui la vittima indossi dei pantaloni. Sul punto si richiama la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III, 21 luglio 2008, n. 30403, che afferma: “il fatto che la ragazza indossasse pantaloni del tipo jeans non era ostativo al toccamento interno delle parti intime, essendo possibile farlo penetrando con la mano dentro l’indumento, non essendo questo paragonabile o una specie di cintura di castità“.