La pratica della mutilazione genitale femminile c.d. Infibulazione trova una tutela giuridica nell’ordinamento italiano in attuazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e sotto il profilo penalistico nell’articolo 583-bis C.p. (introdotto dall’art. 6, comma 1, della Legge n. 7 del 9 gennaio 2006) che punisce con la reclusione da quattro a dodici anni chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili. Sotto tale profilo si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo. La suindicata norma prevede una aggravante specifica nel caso in cui la pratica sia rivolta nei confronti di un minore o per finalità di lucro.
La pratica della mutilazione genitale femminile, oltre a costituire un fatto di sicura rilevanza ai fini della configurabilità di una specifica condizione di vulnerabilità, tanto della donna che dei suoi stretti congiunti che intendano opporsi a tale pratica, costituisce altresì, per quanto attiene alla posizione del soggetto che rischia personalmente di esservi assoggettato, un trattamento inumano e degradante, idoneo a creare discriminazione della donna e a limitarne in modo irreversibile le prerogative comprese nel nucleo inalienabile dei suoi diritti fondamentali. (Cass. n. 29971/2021).
Tale conclusione è avvalorata dall’evoluzione, nel tempo, della considerazione della pratica della cd. infibulazione da parte del diritto internazionale, a partire dalla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo del 27.6.1981, adottata dall’O.A.U. (Organizzazione dell’Unità Africana), oggi A.U. (Unione Africana), che all’articolo 18 comma 3, relativo alla condizione femminile, impone agli Stati di: “provvedere all’eliminazione di qualsiasi discriminazione contro la donna e di assicurare la protezione dei diritti della donna e del bambino quali stipulati nelle dichiarazioni e nelle convenzioni internazionali“.
Il successivo Protocollo per i Diritti delle Donne in Africa – cd. “Protocollo di Maputo“- del 25.11.2005, firmato da 42 Paesi aderenti all’Unione Africana, rafforza la protezione ed il ruolo della donna e prevede l’eliminazione delle pratiche tradizionali lesive dell’integrità fisica e psichica della stessa, come le mutilazioni genitali femminili (cfr. art. 1, lett. g ed art. 5, lett. b); concetto, questo, in seguito ribadito dalla Dichiarazione del Cairo per l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili del 23.6.2003. (Cass. n. 29971/2021).
La pratica, oltre ad essere di per sé lesiva di diversi diritti compresi nel nucleo inalienabile delle prerogative fondamentali dell’individuo, quali quello all’integrità personale, alla libera scelta sessuale -poste le conseguenze, fisiche e psicologiche, che la mutilazione comporta per la successiva vita sessuale ed intima della donna- ed alla salute, con riferimento ai gravi ed inutili rischi che da tale pratica derivano, comporta un trattamento discriminatorio, perché essa costituisce un simbolo di diseguaglianza della donna rispetto all’uomo. (Cass. n. 29971/2021).
Per tali motivi, con la risoluzione n. 1247 del 22.5.2001 il Consiglio d’Europa ha ricompreso la mutilazione genitale nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti, espressamente condannati dall’articolo 3 della Convenzione E.D.U., vietando la relativa operazione anche qualora essa sia praticata da personale professionalmente competente.
Al contempo, il Parlamento Europeo, con la Risoluzione B5- 0686/2000 del 26 febbraio 2001, ha espressamente affermato che le mutilazioni genitali femminili costituiscono “… una forma di violazione dei diritti umani da perseguire sia civilmente che penalmente“. Con le successive Risoluzioni 2008/2071 del 24 marzo 2009, 2009/2681 del 26 novembre 2009 e 2012/2684 del 14.6.2012, lo stesso organo ha condannato le pratiche di mutilazione genitale femminile “… in quanto violazione dei diritti fondamentali dell’uomo e feroce attentato all’integrità psicofisica di donne e bambine e … grave reato agli occhi della società” nonché “… in quanto atto di violenza contro le donne che costituisce una violazione dei loro diritti fondamentali, in particolare il diritto all’integrità personale e alla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva …“, ed ha sollecitato gli Stati membri a “… rifiutare qualsiasi riferimento a pratiche culturali, tradizionali e religiose o tradizioni come fattore mitigante in caso di violenza contro le donne, includendo i cosiddetti crimini d’onore e le mutilazioni genitali femminili.“
L’Assemblea Generale dell’O.N.U., dal canto suo, ha prima – con la risoluzione n. 62/133 del 18.12.2007, “Intensification of efforts to eliminate all forms of violence against women” – affermato l’impossibilità per tutti gli Stati membri di utilizzare tradizioni, credenze religiose o costumi come giustificazione per evitare il loro obbligo di eliminare tutte le forme di violenza contro le donne, raccomandando l’adozione di norme atte a combattere il fenomeno, ad assicurare il miglioramento della condizione femminile e ad educare le comunità locali al rispetto dei diritti umani. In seguito, ha adottato – con la Risoluzione n. 67/146 del 20.12.2012, “Intensifying global efforts for the elimination of female genital mutilation“- una moratoria generale delle mutilazioni genitali femminili, condannando le stesse e tutte le pratiche tradizionali dannose per le donne ad esse correlate e sollecitando gli Stati membri ad assicurarne l’abolizione nel minor tempo possibile.
Infine, l’art. 38 della Convenzione di Istanbul, entrata in vigore il 1.8.2014 e ratificata dall’Italia con Legge n. 77 del 27 giugno 2013, ha imposto agli Stati che la hanno ratificata di adottare “le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i seguenti atti intenzionali: a) l’escissione, l’infibulazione o qualsiasi altra mutilazione della totalità o di una parte delle grandi labbra vaginali, delle piccole labbra o asportazione del clitoride; b) costringere una donna a subire qualsiasi atto indicato al punto a, o fornirle i mezzi a tale fine; c) indurre, costringere o fornire a una ragazza i mezzi per subire qualsiasi atto enunciato al punto a)“. (Cass. n. 29971/2021).
Dal complessivo quadro normativo, interno ed internazionale, ed interpretativo, la giurisprudenza di legittimità ritiene di affermare che, per la donna, il rischio di assoggettamento a pratiche di mutilazioni genitali femminili costituisce elemento rilevante non soltanto per la concessione della tutela umanitaria, ma che per il riconoscimento della protezione internazionale sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lettera b), del D. Lgs. n. 251 del 2007, poiché dette pratiche rappresentano, per la persona umana che le subisce o rischia di subirle, un trattamento oggettivamente inumano e degradante.
Inoltre occorre configurare anche uno spazio per l’eventuale concessione dello status di rifugiato alla donna che tema di essere assoggettata a mutilazione genitale femminile, ove sia accertato che il fenomeno venga praticato, nel contesto sociale e culturale del Paese di provenienza, al fine di realizzare un trattamento ingiustamente discriminatorio, diretto o indiretto, della donna, in relazione alla previsione di cui all’art. 7, lettere a) ed f), del D.Lgs. n. 251 del 2007. In tema di protezione internazionale, infatti, vige il principio per cui gli atti di persecuzione rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato possono essere integrati da qualsiasi comportamento discriminatorio realizzato in danno di una determinata categoria di soggetti, ancorché in esecuzione di provvedimento legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13932 del 06/07/2020) o comunque con modalità idonee a limitare, direttamente o indirettamente, l’autodeterminazione ed il dissenso dei soggetti discriminati (cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 25567 del 12/11/2020). (Cass. n. 29971/2021).