L’interesse ad impugnare una sentenza o un capo di essa costituisce una species dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 C.p.C., e domina la fase processuale civile quale condizione dell’azione.
Secondo il pacifico e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’interesse ad impugnare una sentenza postula la soccombenza nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisce a causa della decisione ( Cass., n. 13395 del 2018; Cass., n. 21304 del 2016; Cass., n. 6770 del 2012), e va apprezzato in relazione all’utilità giuridica che può derivare al proponente il gravame dall’eventuale suo accoglimento (Cass., n. 17969 del 2015; Cass. n. 16016 del 2014; Cass. n. 8934 del 2013) – (cit. Cass., Ord. n. 18350, 04 settembre 2020: l’interesse ad agire, come quello ad impugnare, deve essere, invece, attuale e concreto. Il processo non può utilizzarsi solo in previsione di possibili e futuri effetti favorevoli per la parte.).
La soccombenza, che determina l’interesse all’impugnazione, deve essere valutata anche con riguardo alle enunciazioni contenute nella motivazione della sentenza, qualora esse siano suscettibili di passare in giudicato, in quanto presupposti necessari della decisione (Cass., n. 16071 del 29 Luglio 2015).
Nel sistema processuale penale la presenza di un interesse ad impugnare è espressamente richiesta dall’art. 568, comma 4, C.p.P., norma di carattere generale applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate.
Detta norma, riproducendo quasi integralmente la disposizione di cui all’art. 190, comma quarto, del codice di rito abrogato, testualmente recita: “Per proporre impugnazione è necessario avervi interesse“.
L’interesse come condizione dell’impugnazione e requisito soggettivo del relativo diritto, al di là della previsione positiva introdotta, per la prima volta, dal legislatore del 1930 (i precedenti codici non menzionavano tale requisito), è un principio da sempre immanente, per la sua ragionevolezza, nell’intero sistema processuale e ne integra un canone generale, ampiamente già elaborato, in particolare, dai processualisti del settore civile e proclamato costantemente dalla giurisprudenza di legittimità. (Cass. pen., Sez. Un., c.c. n. 6624 del 27 Ottobre 2011).
È inammissibile, per difetto dell’interesse concreto a impugnare, il ricorso per cassazione presentato dal pubblico ministero avverso una sentenza di non doversi procedere, che non abbia disposto la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa, potendo la parte impugnante procedere all’adempimento omesso personalmente, ovvero facendone richiesta all’ufficio del giudice che ha emesso il provvedimento. (Cass., Sez. 4, n. 6528 del 09/01/2018).
Nel sistema delle impugnazioni penali, la nozione d’interesse ad impugnare non può essere ancorata al concetto di soccombenza, così come inteso dagli studiosi del processo civile, nel quale assume rilievo, a differenza di quanto accade nel processo penale la cui dinamica è affidata all’impulso officioso, il confronto tra la domanda di parte e la sentenza. La soccombenza, infatti, presuppone un processo contenzioso, vale a dire una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti. Il processo penale,
invece, mira alla realizzazione di un unico interesse, tendenzialmente orientato alla conoscenza della verità, all’accertamento della norma eventualmente violata e all’attuazione della giustizia, intesa come affermazione del diritto oggettivo, sicché la nozione di soccombenza appare del tutto inidonea a descrivere in questo campo l’interesse ad impugnare. Tale conclusione trova conferma nel rilievo che l’art. 570 C.p.P. riconosce al Pubblico Ministero la facoltà di proporre impugnazione anche nel caso in cui la decisione abbia accolto le conclusioni da lui rassegnate nel procedimento a quo.
L’interesse ad impugnare deve essere colto nella finalità, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere lo svantaggio processuale e, quindi, il pregiudizio derivante da una decisione giudiziale ovvero deve essere individuato facendo leva sul concetto positivo di utilità che la parte mira a conseguire attraverso l’esercizio del diritto di impugnazione e in coerenza logicamente con il sistema legislativo.
Sono questi gli elementi qualificanti dell’interesse ad impugnare, e il criterio di misurazione dello stesso, visto sia in negativo (rimozione di un pregiudizio) che in positivo (conseguimento di una utilità), è un criterio comparativo tra dati processuali concretamente individuabili: il provvedimento impugnato e quello che il giudice ad quem potrebbe emanare in accoglimento dell’impugnazione.
Dal 1930 in poi il sistema delle impugnazioni penali ha subito, con riferimento alla problematica dell’interesse ad impugnare, una continua evoluzione, che ha portato a profonde modifiche del settore, nel senso che v’è stata una progressiva estensione della titolarità del diritto d’impugnazione, operata attraverso l’accreditamento di un più ampio concetto d’interesse, ravvisato comunque sempre nella finalità di rimuovere un pregiudizio, persino se derivante da una pronuncia favorevole, che incide, però, negativamente nella sfera giuridica o in quella morale della parte.
Al primo intervento del legislatore, che, in attuazione dell’art. 111 Cost., aveva modificato parzialmente, con la Legge 18 giugno 1955, n. 517, l’originario panorama normativo delle impugnazioni, hanno fatto seguito le sentenze manipolative della Corte costituzionale, che fanno esplicito riferimento, a giustificazione dell’estensione del potere d’impugnazione dell’imputato prosciolto, alla lesione di interessi potenzialmente intaccati anche dalla pronuncia favorevole (sentenze n. 70 del 1975, n. 73 del 1978, n.
72 del 1979, n. 53 del 1981, n. 224 del 1983, n. 200 del 1986); vi sono stati, quindi, due ulteriori interventi legislativi, gli artt. 134 e 135 Legge 24 Novembre 1981, n. 689 e l’art. 3 Legge 31 Luglio 1984, n. 400, che hanno recepito il contenuto delle intervenute statuizioni di incostituzionalità del Giudice delle leggi, con riferimento agli artt. 512, 513, 387, 399 C.p.P. del 1930 nella parte in cui ponevano limiti al diritto d’impugnazione avverso sentenze di proscioglimento con effetti pregiudizievoli per l’imputato.
Il vigente codice di procedura penale ha avallato e completato l’iter di totale ricezione della linea di tendenza emersa dalle pronunce della Corte costituzionale e già seguita dal legislatore del 1981 e del 1984, tanto che la Legge‐delega 16 febbraio 1987, n. 81, all’art. 2, n. 86, espressamente prevede il “riconoscimento del diritto d’impugnazione dell’imputato prosciolto che vi abbia interesse“, disposizione recepita nell’art. 593 C.p.P., sul quale non hanno sostanzialmente inciso le norme introdotte dalla Legge 20 Febbraio 2006, n. 46, dichiarate incostituzionali con sentenze della Corte costituzionale nn. 26 e 320 del 2007 e n. 85 del 2008.
L’esposto iter giurisprudenziale e legislativo offre la conferma che l’interesse ad impugnare, con riferimento alle molteplici situazioni che caratterizzano il procedimento penale nelle sue varie articolazioni, non può essere ancorato semplicisticamente al concetto di soccombenza, che è proprio del sistema delle impugnazioni civili, ma deve essere costruito in chiave utilitaristica, nel senso che deve essere orientato a rimuovere un pregiudizio e ad ottenere una decisione più vantaggiosa rispetto a quella della quale si sollecita il riesame.
L’interesse richiesto dall’art. 568, comma 4, C.p.P., quale condizione di ammissibilità dell’esercizio del diritto d’impugnazione, deve essere connotato dai requisiti della concretezza e dell’attualità, deve sussistere non soltanto all’atto della proposizione dell’impugnazione, ma persistere fino al momento della decisione, perché questa possa
potenzialmente avere una effettiva incidenza di vantaggio sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell’impugnazione (Cass., Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995; Cass., Sez. U, n. 20 del 20/10/1996).
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, viene in considerazione la categoria della “carenza d’interesse sopraggiunta“.
Il fondamento giustificativo di tale categoria risiede nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, dell’interesse all’impugnazione, la cui attualità è venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, che assorbe e supera la finalità perseguita dall’impugnante, vuoi perché la
stessa ha già trovato concreta attuazione (si pensi, in materia di revoca di misura interdittiva, alla sopravvenuta estinzione della medesima nel corso del procedimento d’impugnazione), vuoi perché ha perso ogni rilevanza (si pensi, in tema di scadenza dei termini di durata massima della custodia cautelare in carcere, alla intervenuta sentenza di condanna irrevocabile a pena detentiva superiore al presofferto).
A fronte di tali esemplificative situazioni, il rapporto processuale d’impugnazione, concepito come prosecuzione del rapporto processuale originario, inevitabilmente perde di significato e non può trovare ulteriore spazio, essendo intervenuto, per eventi verificatisi medio tempore, il superamento del punto controverso in conseguenza, per così dire, della “cristallizzazione” del rapporto giuridico di base. (Cass. pen., Sez. Un., c.c. n. 6624 del 27 Ottobre 2011).