L’istituto della “legittimazione ad agire” si iscrive nella cornice del “diritto all’azione“, il diritto di agire in giudizio.
L’azione a tutela del diritto costituisce momento essenziale di un ordinamento perchè solo per essa si può parlare di giuridicità dell’ordinamento. Se un diritto non è tutelabile, non è un diritto.
Il nostro ordinamento riconosce, e pone a fondamento del suo essere, il diritto all’azione nel codice civile e nella Costituzione.
L’art. 2907, intitolato “Attività giurisdizionale“, che, all’interno del libro VI, dedicato alla “Tutela dei diritti“, apre il Titolo “Della tutela giurisdizionale dei diritti“, afferma: “Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda della parte“. L’art. 24 Cost., dichiara: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi“.
La legittimazione ad agire serve ad individuare la titolarità del diritto ad agire in giudizio. Ragionando ex art. 81 c.p.c., per il quale “fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui“, essa spetta a chiunque faccia valere nel processo un diritto assumendo di esserne titolare. Secondo una tradizionale e condivisibile definizione la “parte” è il soggetto che in proprio nome domanda o il soggetto contro il quale la domanda, sempre in proprio nome, è proposta.
Oggetto di analisi, ai fini di valutare la sussistenza della legittimazione ad agire, è la domanda, nella quale l’attore deve affermare di essere titolare del diritto dedotto in giudizio. Ciò che rileva è la prospettazione (discorso analogo vale per la simmetrica legittimazione a contraddire, che attiene alla titolarità passiva dell’azione e che, anch’essa, dipende dalla prospettazione nella domanda di un soggetto come titolare dell’obbligo o della diversa situazione soggettiva passiva dedotta in giudizio). Nel caso in cui l’atto introduttivo del giudizio non indichi, quanto meno implicitamente, l’attore come titolare del diritto di cui si chiede l’affermazione e il convenuto come titolare della relativa posizione passiva, l’azione sarà inammissibile.
Naturalmente ben potrà accadere che poi, all’esito del processo, si accerti che la parte non era titolare del diritto che aveva prospettato come suo (o che la controparte non era titolare del relativo obbligo), ma ciò attiene al merito della causa, non esclude la legittimazione a promuovere un processo. L’attore perderà la causa, con le relative conseguenze, ma aveva diritto di intentarla.
Da quest’analisi emerge come una cosa sia la legittimazione ad agire, altra cosa sia la titolarità del diritto sostanziale oggetto del processo. La legittimazione ad agire mancherà tutte le volte in cui dalla stessa prospettazione della domanda emerga che il diritto vantato in giudizio non appartiene all’attore. La titolarità del diritto sostanziale attiene invece al merito della causa, alla fondatezza della domanda. I due regimi giuridici sono, conseguentemente, diversi.
Come si è visto, è consolidata ed univoca la giurisprudenza per cui la carenza di legittimazione ad agire può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Del resto, non si pongono problemi probatori, perchè si ragiona sulla base della domanda e della prospettazione in essa contenuta. E’ comprensibile che la questione non sia soggetta a preclusioni, in quanto una causa non può chiudersi con una pronuncia che riconosce un diritto a chi, alla stregua della sua stessa domanda, non aveva titolo per farlo valere in giudizio. In fatto, peraltro, ciò accade raramente e l’incidenza pratica di tale tipo di questione può ritenersi trascurabile.
In molti casi si parla di legittimazione ad agire, ma impropriamente, in quanto il problema è diverso, attiene al merito della causa e riguarda non la prospettazione ma la fondatezza della domanda: si tratta di stabilire se colui che vanta un diritto in giudizio ne sia effettivamente il titolare.
La disciplina di questa diversa situazione è controversa sotto molteplici profili.
Sul punto si segnala l’intervento delle sezioni unite, rilevando: “la giurisprudenza di legittimità non è unanime in materia di contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio. La tesi minoritaria sostiene che essa costituisce una mera difesa, con le ovvie conseguenze, tra le quali quella che incombe alla parte, la cui titolarità è contestata, fornire la prova di possederla. L’orientamento maggioritario, invece, afferma che contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio costituisce un’eccezione in senso tecnico, che deve essere introdotta nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte, con l’ulteriore conseguenza che spetta alla parte che prospetta tale eccezione l’onere di provare la propria affermazione“.
Per l’orientamento minoritario si segnala Cass., 10 luglio 2014, n. 15759; 5 novembre 1997, n. 10843 e 19 luglio 2011, n. 15832, mentre per l’orientamento maggioritario: Cass. 27 giugno 2011, n. 14177; 10 maggio 2010, n. 11284, 15 settembre 2008, n. 23670, 26 settembre 2006, n. 20819, 7 dicembre 2000, n. 15537.
Le motivazioni delle sentenze che esprimono l’orientamento maggioritario seguono, di massima, questi passaggi. Partono dalla distinzione tra legittimazione ad agire ed effettiva titolarità del rapporto, puntualizzando che la carenza della legittimazione ad agire è rilevabile in ogni grado e stato del giudizio, anche d’ufficio dal giudice, mentre, per contro, la questione della titolarità del rapporto (tanto attiva che passiva) attiene al merito della decisione e quindi alla fondatezza della domanda in concreto proposta. Da questa premessa fanno derivare l’affermazione che la relativa questione rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, con la conseguenza che il difetto di titolarità attiva e passiva del rapporto non può essere rilevato d’ufficio dal giudice, ma deve essere dedotto nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni in senso stretto (così, ad es. Cass., sez. 2^, 10 maggio 2010, 11284, cit.: “nella specie si tratta non già di difetto di legittimazione ad agire, bensì di questione relativa alla fondatezza della domanda e, pertanto, di questione che attiene al merito della lite (in quanto concernente l’accertamento in concreto della effettiva titolarità del rapporto fatto valere in giudizio) e che, al contrario della “legitimatio ad causam”, non è rilevabile d’ufficio essendo collegata al potere dispositivo e all’onere deduttivo e probatorio della parte interessata“; Cass., sez. 3^, 20819/2006, rit., a sua volta, afferma sul punto: “L’eccezione del convenuto circa l’effettiva titolarità del diritto fatto valere comporta una disamina ed una decisione attinente al merito della controversia, con la conseguenza che il difetto di titolarità deve essere provato da chi lo eccepisce e deve formare oggetto di specifica e tempestiva deduzione in sede di merito“; in termini quasi identici si esprime Cass., sez. 3^, 15537/2000).
Con formule analoghe, spesso più contratte, si esprimono anche ulteriori decisioni, quali Cass., sez. 1^, 23 novembre 2005, n. 24594; sez. 3^, 30 maggio 2008, n. 14468; sez. 2^, 23 maggio 2012, n. 8175; sez. 3^, 14 febbraio 2012, n. 2091.
Tra le ultime, Cass., sez. 3^, 28 ottobre 2015, n. 21925, occupandosi di un’azione di risarcimento danni da circolazione stradale in cui non era stata tempestivamente eccepita la circostanza che il convenuto non era il proprietario del veicolo che aveva causato il danno, ha affermato: “trattandosi di questione concernente l’accertamento in concreto dell’effettiva titolarità (nel caso, dal lato passivo) del rapporto fatto valere in giudizio e cioè dell’identificabilità del soggetto tenuto alla prestazione richiesta, il difetto di effettiva titolarità passiva del rapporto giuridico controverso attiene dunque al merito della controversia e il suo difetto va dedotto nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte“. Cass., sez. 2^, 2 marzo 2015, n. 4166, occupandosi invece di una questione di titolarità del diritto fatto valere in giudizio, ha affermato: “la deduzione, formulata con riferimento all’asserita carenza di legittimazione attiva, in effetti era diretta alla declaratoria di assenza della titolarità attiva del rapporto, di guisa che non poteva essere formulata per la prima volta in appello, posto che la contestazione della titolarità del rapporto attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, sicchè non può essere rilevata d’ufficio dal giudice“.
La tesi dell’orientamento maggioritario ha il suo punto debole nel passaggio in cui, dopo aver correttamente affermato che la questione della titolarità del diritto fatto valer in giudizio attiene al merito, e quindi al problema della fondatezza della domanda, sostiene che, in quanto attinente al merito, la materia rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, traendone la conseguenza che il difetto di titolarità attiva e passiva del rapporto non può essere rilevato d’ufficio dal giudice, ma deve essere dedotto nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni in senso stretto.
L’attinenza al merito e più specificamente al problema della fondatezza della domanda di per sè non comporta le conseguenze che così se ne traggono.
Il problema, di merito, è di verificare se il diritto azionato in giudizio, o che costituisce il presupposto del diritto azionato in giudizio, appartiene effettivamente a chi assume di esserne titolare.
La titolarità del diritto fatto valere in giudizio è un elemento costitutivo della domanda. Gli elementi costitutivi possono consistere in meri fatti o in fatti-diritto. Per chiedere in giudizio il riconoscimento di un diritto è necessario allegare e dimostrare una serie di fatti: ad esempio per il riconoscimento di una pensione d’inabilità bisogna presentare un certo grado di inabilità psico- fisica al lavoro e un reddito inferiore a determinati livelli.
Ma tra gli elementi costitutivi di un diritto possono esservi anche altri diritti. (Cass. Sez. Unite civili Sentenza n. 2951 del 16.02.2016: nel caso in esame, il diritto oggetto della domanda è il risarcimento del danno subito da un immobile e tra gli elementi costitutivi della domanda vi è il diritto di proprietà sul bene danneggiato. Per chiedere in giudizio il risarcimento del danno la parte deve dimostrare, oltre ad una serie di elementi materiali (il danno, il nesso di causalità), anche di essere titolare di un diritto reale sul bene danneggiato. Il diritto reale non è il diritto oggetto della domanda, e quindi della tutela giudiziaria, ma è un elemento costitutivo di quel diritto).
In generale, peraltro, chi fa valere un diritto in giudizio, non può limitarsi ad allegare che un diritto sussiste ma deve allegare che quel diritto gli appartiene, deve dimostrare che vi sono ragioni giuridiche che collegano il diritto alla sua persona.
Di conseguenza, sul piano dell’onere probatorio, in base alla ripartizione fissata dall’art. 2697 c.c., la titolarità del diritto è un fatto, appartenente alla categoria dei fatti-diritto, che della domanda costituisce il fondamento.
Fissando alcune prime conclusioni, può pertanto dirsi che la parte che promuove un giudizio deve prospettare di essere parte attiva del giudizio (ai fini della legittimazione ad agire) e deve poi provare di essere titolare della posizione giuridica soggettiva che la rende parte.
Quanto al convenuto, qualora non condivida l’assunto dell’attore in ordine alla titolarità del diritto, può limitarsi a negarla.
Questa presa di posizione è una mera difesa.
Le “difese” sono, in generale, le posizioni assunte dal convenuto per contrapporsi alla domanda. Possono consistere nella esposizione di ragioni giuridiche o in prese di posizione rispetto ai fatti prospettati dall’attore. Queste ultime potranno, a loro volta, consistere in prese di posizione che si limitano a negare l’esistenza di fatti costitutivi del diritto (“mere difese“), oppure nella contrapposizione di altri fatti che privano di efficacia i fatti costitutivi, o modificano o estinguono il diritto. Il codice civile, all’art. 2697, secondo comma, definisce questa seconda operazione difensiva introducendo il termine “eccezione” e pone l’onere della prova dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi oggetto delle eccezioni a carico del convenuto.
All’interno della categoria generale delle eccezioni, si delinea poi la sottocategoria delle “eccezioni in senso stretto“, che presenta un regime giuridico peculiare. Rilevano a tal fine la norma per cui “(il giudice) non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti” (art. 112 c.p.c., seconda parte), alla quale si ricollega la previsione per cui il convenuto, nella comparsa di risposta “a pena di decadenza deve proporre…..le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio” (art. 167, secondo comma, c.p.c.).
Sul piano pratico la distinzione che più conta non è tanto quella tra mere difese ed eccezioni, quanto quella che isola le eccezioni in senso stretto, soggette a decadenza, se non vengono tempestivamente proposte, e non rilevabili d’ufficio.
Facendo nuovamente il punto, può allora dirsi che la titolarità, costituendo un elemento costitutivo del diritto fatto valere in giudizio, può essere negata dal convenuto con una mera difesa e cioè con una presa di posizione negativa, che contrariamente alle eccezioni in senso stretto, non è soggetta a decadenza ex art. 167 c.p.c., comma 2.
E’ vero che il medesimo art. 167, comma 1, chiede al convenuto di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore fondamento delle domanda, ma tale disposizione, contrariamente a quanto sancito nel comma successivo, non prevede decadenza.
Pertanto, la questione che non si risolva in un’eccezione in senso stretto può essere posta dal convenuto anche oltre quel termine e può essere sollevata d’ufficio dal giudice. Essa può anche essere oggetto di motivo di appello, perchè l’art. 345 c.p.c., comma 2, prevede il divieto di “nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio“.
Tuttavia, la presa di posizione assunta dal convenuto con la comparsa di risposta, può avere rilievo, perchè può servire a rendere superflua la prova dell’allegazione dell’attore in ordine alla titolarità del diritto. Ciò avviene nel caso in cui il convenuto riconosca il fatto posto dall’attore a fondamento della domanda oppure nel caso in cui articoli una difesa incompatibile con la negazione della sussistenza del fatto costitutivo.
Può poi accadere, come si è anticipato, che la difesa sia articolata in modo incompatibile con la negazione della titolarità del diritto di proprietà: anche in questo caso la prova il cui onere è a carico dell’attore può dirsi raggiunta. Nè sarebbe consentito in seguito al convenuto, tanto meno in appello, proporre una nuova esposizione dei fatti questa volta compatibile con la negazione del diritto. Spesso il problema si risolve su questo piano. Ad es. Cass., 14177/2011, sottolinea che il ricorrente per cassazione (convenuto), “lungi dall’eccepire la propria estraneità al giudizio, ha svolto difese oppositive alla domanda di divisione, reclamando, in primo grado, l’attribuzione esclusiva dei beni sulla base di una scrittura di cessione di quote poi rivelatasi falsa in sede penale, e successivamente, in appello, contestando i criteri di formazione delle quote da assegnare ai singoli condividenti con un comportamento che osta alla negazione della titolarità“.
Più complessa è la problematica relativa al principio di non contestazione. Il convenuto, come si è visto, deve tempestivamente prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (art. 167 c.p.c., comma 1) e “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal p.m., nonchè i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita” (art. 115 c.p.c., comma 1).
Il silenzio è cosa diversa dal riconoscimento (espresso, implicito o indiretto). La non contestazione pone problemi più delicati e deve essere attentamente valutata dal giudice, specie quando non attenga alla sussistenza di un fatto storico, ma riguardi un fatto costitutivo ascrivile alla categoria dei fatti-diritto. In particolare in queste materie, il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Cass., sez. un., 3 giugno 2015, n. 11377, anche per ulteriori richiami). Del resto, se le prove devono essere valutate dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116 c.p.c.), “a fortiori” ciò vale per la valutazione della mancata contestazione.
Diversa, infine, è la considerazione del silenzio quando la parte sia rimasta contumace. Questo silenzio, per il codice, ha ancor meno valore. L’art. 115, impone al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati “dalla parte costituita“. Il principio di non contestazione quindi non viene esteso alla parte che non si è costituita: la contumacia esprime un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte, nè altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti; in particolare la contumacia del convenuto non esclude che l’attore debba fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Costituendosi tardivamente il contumace deve accettare il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni maturate, ma potrà assumere posizioni di mera negazione dei fatti costitutivi la cui prova gravi sulla controparte.
Si affermano i seguenti principi di diritto:
La legittimazione ad agire attiene al diritto di azione, che spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne titolare. La sua carenza può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
Cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio. La relativa questione attiene al merito della causa.
La titolarità della posizione soggettiva è un elemento costitutivo del diritto fatto valere con la domanda, che l’attore ha l’onere di allegare e di provare.
Può essere provata in positivo dall’attore, ma può dirsi provata anche in forza del comportamento processuale del convenuto, qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità.
La difesa con la quale il convenuto si limiti a dedurre, ed eventualmente argomentare (senza contrapporre e chiedere di provare fatti impeditivi, estintivi o modificativi), che l’attore non è titolare del diritto azionato, è una mera difesa. Non è un’eccezione, con la quale si contrappone un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, nè quindi, un’eccezione in senso stretto, proponibile, a pena di decadenza, solo in sede di costituzione in giudizio e non rilevabile d’ufficio.
Essa pertanto può essere proposta in ogni fase del giudizio (in cassazione solo nei limiti del giudizio di legittimità e sempre che non si sia formato il giudicato). A sua volta il giudice può rilevare dagli atti la carenza di titolarità del diritto anche d’ufficio.
La contumacia del convenuto non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte, nè altera la ripartizione degli oneri probatori e non vale in particolare ad escludere che l’attore debba fornire la prova di tutti i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Però il convenuto, costituendosi tardivamente accetta il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni maturate. Gli sarà preclusa la possibilità di basare la negazione della titolarità del diritto sull’allegazione e prova di fatti impeditivi, modificativi o estintivi non rilevabili dagli atti.
Corte di Cassazione Sez. Unite civili Sentenza n. 2951 del 16.02.2016