L’esimente del diritto di critica di cui all’art. 51 C.p., nella cui prospettiva devono essere valutati il requisito della continenza e anche quello dell’oggettiva rigorosa obiettività della notizia.
Nel caso di specie l’esimente del diritto di critica non veniva riconosciuta per aver riferito una notizia errata, in particolare il rinvio a giudizio della persona offesa (per cui era stato invece emesso semplicemente il decreto di chiusura indagini).
Infatti in tema di diffamazione a mezzo stampa, presupposto imprescindibile per l’applicazione dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica è la verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica (Cass., Sez. 5, n. 7715 del 04/11/2014); la critica quindi deve pur sempre fondarsi sull’attribuzione di fatti veri, posto che nessuna interpretazione soggettiva, fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio di tale diritto, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità (Cass., Sez. 5, n. 7419 del 03/12/2009).
È pur vero che la Corte di legittimità ha ripetutamente aggiunto che il rispetto della verità del fatto assume, in riferimento all’esercizio del diritto di critica politica, un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, ed ancor più quella politica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Cass., Sez. 5, n. 25518 del 26/09/2016; Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010; Sez. 5, n. 49570 del 23/09/2014).
Tale affievolimento non può tuttavia estendersi sino a legittimare l’attribuzione di una notizia obiettivamente falsa, e non solo inesatta o imprecisa, che rappresenta il punto di partenza dell’analisi e della censura politica.
Nel caso di specie i Giudici del merito hanno correttamente escluso la sussistenza del requisito della verità oggettiva della notizia, perché, al di là delle macroscopica differenza giuridica fra l’avviso di chiusura delle indagini da parte del Pubblico Ministero ex art. 415 bis cod. proc. pen. e il rinvio a giudizio da parte del Giudice per le indagini preliminari ex art. 429 cod. proc. pen., la profonda divergenza fra i due istituti, agevolmente percepibile e percepita anche dall’opinione pubblica, impediva di ravvisare una sostanziale corrispondenza fra notizia e realtà, deformata solo in aspetti marginali.
Anche secondo il comune modo di pensare, un conto, infatti, è riferire che il Pubblico Ministero dopo aver indagato su di un personaggio politico, ha ritenuto di aver completato le attività investigative, altro è che il Pubblico Ministero abbia richiesto il rinvio a giudizio, esercitando l’azione penale, e soprattutto che il Giudice, organo terzo e imparziale, abbia esaminato il risultato di tali attività investigative e abbia ritenuto che sussistessero sufficienti elementi di prova per la celebrazione del giudizio penale a carico dell’indagato.
Non è poi condivisibile la considerazione del ricorrente secondo la quale la notizia non vera appariva del tutto ininfluente nell’economia del discorso: essa, al contrario, era lo stimolo scatenante dell’intervento e la menzione del rinvio a giudizio, con il crisma di attendibilità delle accuse impresso dall’intervento del Giudice, era tutt’altro che ininfluente.
La chiusura delle indagine e il rinvio a giudizio degli esponenti politici avevano determinato, nella logica della comunicazione in questione e nella visione del commentatore, l’emersione del quadro drammatico e reale degli intrecci perversi fra politica, affari e pubblico denaro.
È ovviamente del tutto irrilevante che la persona sia stata successivamente rinviata a giudizio, poiché la verità della notizia deve essere apprezzata con riferimento al momento in cui è stata fornita l’informazione non vera; altra cosa, evidentemente, è se tale circostanza possa aver rilievo ai fini della quantificazione del danno risarcibile devoluta al giudizio civile.
Inoltre si osserva che il preteso (e, oltretutto, indimostrato) errore non ricadeva sugli elementi costitutivi della fattispecie, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 47 cod. pen.
La liceità del comportamento non può neppure essere legittimamente ritratta dall’esercizio putativo, per errore, del diritto di cronaca perché, allorché venga stigmatizzato un fatto ritenuto obiettivamente vero è necessaria l’esistenza di un errore assolutamente scusabile; non assume invece valenza esimente la verità putativa, cioè solo supposta del fatto diffamatorio, senza previa acquisizione, attraverso le opportune verifiche e controlli, della certezza dell’effettiva sussistenza dei fatti denunciati. (Cass., Sez. 5, n. 11199 del 11/08/1998).
La scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è quindi ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte (Cass., Sez. 5, n. 7967 del 08/05/1998); il riferimento a fonte attendibile e autorevole rappresenta, infatti, attuazione dell’obbligo di controllo sulla verità della notizia percepita, quale esigibile dall’agente, e correlativamente integra – sussistendo gli altri requisiti della pertinenza e della continenza – gli estremi di un incolpevole ed involontario errore percettivo sulla corrispondenza al vero del fatto esposto che determina l’esenzione da responsabilità (Cass., Sez. 5, n. 37435 del 09/07/2004; Sez. 5, n. 1952 del 02/12/1999; Sez. 5, n. 7393 del 14/06/1996).
Corte di Cassazione Sez. V, sentenza 13 novembre 2017, n. 51619