Stampa: diritti e libertà nel Panorama Legislativo Italiano

La storia dell’Italia unita, in tema di libertà di stampa, ha avuto avvio con l’art. 28 dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, che recepiva il modello francese, di matrice positivistica, cristallizzato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1789 (art. 11).

Il richiamato art. 28 stabiliva che “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”.

Si conferiva così al Parlamento, stante il carattere flessibile dello Statuto, una sorta di delega in bianco per reprimere gli abusi e adottare, quindi, nel tempo qualsiasi provvedimento anche restrittivo di tale libertà.

Fece seguito, ad integrazione della generica formulazione della norma statutaria, il R.D. 26 marzo 1848, n. 695, meglio noto come “Editto Albertino sulla Stampa”, che rifletteva una concezione liberale e abbastanza garantista.

L’art. 1, infatti, statuiva che “La manifestazione del pensiero per mezzo della stampa e di qualsiasi artificio meccanico atto a riprodurre segni figurativi, è libera: quindi ogni pubblicazione di stampati, incisioni, litografie, oggetti di plastica e simili è permessa con che si osservino le norme seguenti”.

L’Editto, inoltre, vietava provvedimenti restrittivi di carattere preventivo (censura) e consentiva l’ammissibilità del sequestro, previa autorizzazione del giudice, soltanto in caso di commissione di reati a mezzo stampa e di accertata responsabilità penale.

Nel volgere di pochi anni, però, l’impianto dell’Editto, a causa delle tensioni che conseguirono al raggiungimento dell’unità d’Italia, subì uno stravolgimento per effetto dell’approvazione di alcune leggi di polizia.

Il riferimento è alle leggi 13 novembre 1859, n. 3720, 20 marzo 1865, n. 2248, 30 giugno 1889, n. 6144, che incisero sensibilmente sulla ratio ispiratrice dell’Editto, riducendo le garanzie in esso previste.

Venne introdotta l’autorizzazione obbligatoria di polizia per l’esercizio dell’attività tipografica.

Si riconobbe all’autorità di pubblica sicurezza il potere di disporre il sequestro preventivo.

La responsabilità penale per i reati a mezzo stampa, già prevista per l’autore dell’articolo e per il gerente responsabile, venne estesa anche agli editori.

La prescritta comunicazione alla Segreteria di Stato per gli affari interni dell’avvio delle pubblicazioni assunse, di fatto, i connotati di una vera e propria autorizzazione, che poteva quindi anche essere negata.

All’inizio del ventesimo secolo, recuperato un clima di maggiore distensione con la stabilità politica e sociale del periodo giolittiano, la legge 28 giugno 1906, n. 278 (c.d. legge Sacchi), abolì la licenza di polizia per l’esercizio dell’arte tipografica, stabilì chiaramente che il Giudice poteva disporre il sequestro degli stampati solo a seguito di sentenza di condanna del responsabile e che il sequestro preventivo poteva essere disposto, sempre dal Giudice e non ad iniziativa dell’autorità di pubblica sicurezza, esclusivamente nei casi di pubblicazioni contrarie al buon costume e di pubblicazioni non depositate presso l’autorità pubblica.

 A seguito del coinvolgimento dell’Italia nel primo conflitto mondiale, vi fu un nuovo irrigidimento, in senso illiberale, della normativa in materia.

Con la legge n. 83 del 1915 e il R.D. n. 675 dello stesso anno, si attribuì al potere esecutivo la facoltà di vietare la pubblicazione di ogni notizia di carattere militare e al prefetto il compito di sequestrare le pubblicazioni non rispettose di tale divieto.

Per evitare il sequestro, fu prevista anche la facoltà di sottoporre preventivamente gli stampati al prefetto, per ottenere il nulla osta alla pubblicazione, facoltà avvertita progressivamente come un obbligo in capo agli editori, il che si concretizzò in una vera e propria forma di censura preventiva.

 La situazione peggiorò ulteriormente con l’avvento del regime fascista.

Con una serie di interventi legislativi (r.d.l. n. 3288 del 1923; r.d.l. n. 1081 del 1924; leggi n. 2307, n. 2308, n. 2309 del 1925; testi unici della legislazione di pubblica sicurezza del 1926 e del 1931 e relativi regolamenti), la libertà di stampa, in linea con la tendenza del regime a reprimere ogni forma di dissenso, subì severe restrizioni: sul garante responsabile delle pubblicazioni periodiche gravava una responsabilità a titolo oggettivo per fatto altrui, mentre la sua responsabilità, per le pubblicazioni non periodiche, era sussidiaria a quella dell’autore e dell’editore.

Inoltre, la sua nomina doveva ottenere il placet del prefetto, che poteva liberamente revocarla, determinando conseguentemente la chiusura del giornale.

La figura del garante venne poi sostituita da quella del direttore responsabile, nominato dalla Corte d’appello.

L’iscrizione obbligatoria all’Albo dei giornalisti, subordinata alla certificazione prefettizia di buona condotta politica, era funzionale a garantire che non venissero divulgate notizie ed opinioni contrarie al regime.

Furono ampliati i poteri dell’autorità di pubblica sicurezza, con la reintroduzione della licenza di polizia per l’esercizio dell’arte tipografica e con l’attribuzione alla polizia del potere, assolutamente discrezionale, di procedere al sequestro preventivo degli stampati, a prescindere dall’accertamento giudiziario di eventuali responsabilità penali.

Ogni aspetto della vita culturale venne sottoposto a rigoroso controllo e la comunicazione politica del regime, opportunamente filtrata dall’Ente Stampa, risultò omogenea nei diversi organi di informazioni.

Con la caduta del regime fascista e alla vigilia del referendum del 2 Giugno 1946, vi fu un primo intervento legislativo, che rappresentò una svolta radicale rispetto al passato e restituì alla stampa la sua dignità di diritto di libertà.

Il r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 561, ancora oggi in vigore, abolito il sequestro preventivo ad iniziativa dell’autorità di pubblica sicurezza, prevede il sequestro come strumento esclusivamente repressivo, attivabile dal Giudice solo in caso di condanna irrevocabile per un reato a mezzo stampa.

Prima della condanna irrevocabile, consente, tuttavia, all’autorità giudiziaria di disporre il sequestro probatorio di sole tre copie dello stampato ai fini dell’accertamento di eventuali responsabilità penali.

Le uniche ipotesi di sequestro preventivo rimaste in vita (art. 2) sono quelle aventi ad oggetto giornali o stampati dal contenuto osceno o offensivo della pubblica decenza ovvero divulganti mezzi rivolti a procurare l’aborto (dichiarato incostituzionale, con sentenza n. 49 del 1971, il riferimento anche alla divulgazione di mezzi rivolti “a impedire la procreazione”).

La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 10 gennaio 1948, proclama testualmente all’art. 21:

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.

L’Assemblea costituente, in attuazione della XVII disposizione transitoria della Carta fondamentale, varò anche la legge 8 febbraio 1948, n. 47, intitolata “Disposizioni sulla stampa”.

Il termine “stampa” compare per la prima volta nel dettato costituzionale e l’art. 1 della legge n. 47 del 1948 precisa che sono da considerarsi stampe o stampati “tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”.

Corte di Cassazione S.U.  Num. 31022 Anno 2015

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