La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la modifica della qualificazione giuridica della condotta (con conseguente mutamento del capo di imputazione) e il diritto dell’imputato di richiedere l’ammissione all’istituto della messa alla prova.
Va innanzitutto considerato che testualmente l’art. 464 bis C.p. non consente la richiesta della messa alla prova in un momento successivo all’apertura del dibattimento.
Del resto, per tutti i riti alternativi, per ragioni ovvie, sono individuati termini ultimi per richiederli, sempre “in limite litis“, con la possibilità di ottenere il beneficio offerto all’imputato (la riduzione di pena) in determinati casi in cui la mancata ammissione al rito risulti ingiustificata.
Ma, anche in tali casi, vi è la previsione espressa di legge.
Rappresentando comunque la richiesta di riti alternativi un interesse della difesa, vari interventi della Corte costituzionale hanno individuato correttivi rispetto al caso in cui nel corso del processo una contestazione venga modificata senza che siano cambiate le condizioni di fatto iniziali.
I casi sono tipicamente quelli delle contestazioni suppletive, quando cioè ricorra un “fatto nuovo o un reato concorrente che risultava già dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, e che pertanto il pubblico ministero ben avrebbe potuto contestargli già in quel momento, sì da porlo in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa in merito alla scelta del rito“.
In questi casi, rammenta la sentenza n. 14 del 2020, dei correttivi sono stati individuati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 265 del 1994 in relazione al patteggiamento e con la sentenza n. 333 del 2009 in relazione al rito abbreviato: ovvero la Corte, con riferimento alla ipotesi delle contestazioni suppletive ha di volta in volta “dichiarato illegittimi gli artt. 516 e 517 C.p.P., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di essere ammesso a un rito speciale a contenuto premiale allorché, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, fosse emerso, rispettivamente, un fatto diverso da quello originariamente contestato, ovvero un reato connesso o una circostanza aggravante non previamente contestati all’imputato“.
La ragione, che riguarda le contestazioni suppletive e non la riqualificazione operata dal giudice, è che nel caso delle contestazioni suppletive l’imputato veniva ad essere “… irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza dalla maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero“.
In definitiva, non è consentito, e non vi è alcun dubbio di costituzionalità, proporre tardivamente la richiesta di messa alla prova dopo la modifica della qualificazione giuridica della condotta.
Si consideri, peraltro, che una corretta interpretazione delle norme vigenti rende comunque possibile la tutela del proprio interesse anche in tali ipotesi laddove l’imputato sia diligente: la soluzione è stata già prospettata dalla stessa Corte costituzionale nella diversa sentenza n. 131 del 2019 in tema di giudizio abbreviato.
La parte può chiedere entro il termine (prima dell’apertura del dibattimento etc) la messa alla prova deducendo la erronea qualificazione giuridica. In tale caso, se il giudice, all’esito del giudizio ritenga effettivamente erronea tale qualificazione, deve ammettere la messa alla prova. In questa ipotesi rileva che vi sia stata la richiesta nei termini (perché, si ripete, la disposizione non lascia alcuna elasticità) e vi sia stata la valutazione di erroneità della contestazione, quindi modificata in quella che consenta la messa alla prova.
Corte di Cassazione Penale Sent. Sez. 6 n. 19673 Anno 2021