Il reato di Peculato è disciplinato dall’art. 314 C.p.:
Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.
Secondo alcuni principi ormai consolidati nella più recente giurisprudenza di legittimità in tema di peculato si ricava che:
a) il presupposto della condotta del peculato, e cioè il possesso o la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile, può consistere anche nella disponibilità giuridica, ossia nel potere di adottare atti dispositivi del bene;
b) la condotta di appropriazione può avvenire anche mediante atti e provvedimenti amministrativi;
c) la condotta di appropriazione può consistere anche nella destinazione a terzi senza alcuna causa, e quindi per fini meramente privati ed extraistituzionali, del denaro o della cosa mobile.
Numerosissime, in particolare, sono le decisioni nelle quali, muovendo dal presupposto secondo cui, in tema di peculato, la nozione di possesso di denaro deve intendersi come comprensiva non solo della detenzione materiale, ma anche della disponibilità giuridica, si è ritenuta integrata la fattispecie del delitto previsto dall’articolo 314 C.p. in relazione alla condotta del pubblico agente che eroga denaro pubblico attraverso l’adozione di atti amministrativi di sua competenza (cfr., in particolare: Cass., Sez. 6, n. 7492 del 18/10/2012; Sez. 6, n. 41093 del 18/09/2013; Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013; Sez. 6, n. 49283 del 04/11/2015; Sez. 6, n. 50758 del 15/12/2015; Sez. 6, n. 3913 del 11/12/2015; Sez. 6, n. 16399 del 22/03/2016; Sez. 6, n. 20666 del 08/04/2016).
Secondo plurimi arresti giurisprudenziali, inoltre, può sussistere la fattispecie di peculato anche quando la disponibilità giuridica del denaro (o della diversa cosa mobile) sia frazionata tra più organi, perché più soggetti debbano concorrere per l’adozione di un atto dispositivo, come tipicamente previsto per le procedure di spesa (cfr., tra le tante: Cass., Sez. 5, n. 15951 del 16/01/2015; Sez. 6, n. 5494 del 22/10/2013; Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013; Sez. 6, n. 5502 del 11/01/1996).
Diverse pronunce, ancora, ritengono configurabile il delitto di cui all’articolo 314 C.p. anche nel caso sia stata predisposta documentazione fittizia, se tale artificio non sia necessario all’acquisizione della disponibilità del denaro pubblico (così: Cass., Sez. 6, n. 49283 del 2015; Sez. 6, n. 3913 del 2016; Sez. 6, n. 20666 del 2016; Sez. 6, n. 24518 del 07/02/2017; Sez. 2, n. 943 del 11/10/2017).
DISTINZIONE CON IL REATO DI TRUFFA AGGRAVATA
In linea generale, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell’articolo 61 C.p., n. 9 va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (così, tra le tante, Cass., Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, nonché Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013).
Occorre però esaminare se, e in quale misura, ai fini della configurabilità dell’una o dell’altra fattispecie, rilevi la disposizione di cui all’articolo 48 C.p., in forza della quale “se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno (…) del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”.
Secondo un diffuso orientamento della giurisprudenza di legittimità, è configurabile il delitto di peculato, anche in applicazione dell’articolo 48 C.p., quando l’atto finale del procedimento di spesa è emesso da pubblici ufficiali indotti in errore dai pubblici agenti che si sono occupati di istruire la fase istruttoria (così Cass., Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013, nonché, in precedenza, cfr.: Sez. 6, n. 2064 del 13/01/1984; Sez. 6, n. 139 del 08/11/1971; Sez. 6 n. 186 del 28/01/1970).
Questo orientamento trova conferma in divere pronunce, alcune recenti, altre risalenti, che, pur non richiamando esplicitamente la disposizione di cui all’articolo 48 C.p., hanno ravvisato la configurabilità del delitto di peculato in relazione a procedure di spesa in cui il pubblico agente al quale era riferibile il provvedimento finale era in buona fede e le condotte fraudolente erano poste in essere dai funzionari istruttori della pratica. In particolare, tra le più recenti, si può indicare Cass., Sez. 6, n. 5494 del 22/10/2013, ha richiamato puntualmente Cass., Sez. 6, n. 39039 del 2013, precisando che quest’ultima era relativa a “fattispecie del tutto analoga a quella in esame”. Tra le altre, é possibile citare Cass., Sez. 6, n. 37030 del 10/06/2003, concernente il gestore di fatto della contabilità di un Ordine professionale, il quale aveva agito “inducendo in errore” il presidente ed il tesoriere dell’ente pubblico, che, in “buona fede” avevano proceduto alla sottoscrizione di mandati di pagamento, nonché Cass., Sez. 6, n. 1637 del 08/07/1969, relativa al funzionario di istituto pubblico di beneficienza che si era appropriato di somme di denaro appartenenti all’ente inducendo con inganno il presidente del consiglio dell’ordine a sottoscrivere mandati di pagamento di sedicenti dame di beneficienza.
Inoltre, la configurabilità del peculato ex articolo 48 C.p. è stata ritenuta anche nei confronti di soggetto privo di qualifica pubblicistica che, traendo in inganno il pubblico agente, si appropri per tramite di questi di una cosa dal medesimo posseduta per ragioni di ufficio (cfr. Cass., Sez. 6, n. 4411 del 01/03/1996).
A fondamento della configurabilità della fattispecie di peculato, le più recenti decisioni, in particolare, valorizzano la circostanza che i funzionari i quali avevano istruito le procedure di spesa, pur non essendo i firmatari dell’atto finale, avevano la disponibilità giuridica del denaro (così Cass., Sez. 6, n. 39039 del 2013, e Sez. 6, n. 5494 del 2014).
Altro indirizzo interpretativo della giurisprudenza, pur senza evocare espressamente l’applicabilità o l’inapplicabilità della disposizione di cui all’articolo 48 C.p. in relazione alla fattispecie di peculato, si pone dichiaratamente in contrasto con la soluzione accolta dalle pronunce sopra citate (cfr., specificamente, Cass., Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014).
Secondo questo indirizzo, l’articolo 314 C.p. “sanziona l’abuso del possesso, e colpisce in particolare il “tradimento” di fiducia del soggetto al quale l’ordinamento ha conferito la possibilità di disporre in autonomia della cosa affidatagli”; di conseguenza, se occorre acquisire atti dispositivi mediante “un’attività decettiva fondata sulla frode”, emerge “per un verso come non vi sia stato pieno affidamento dell’amministrazione nei confronti dell’interessato, e per altro verso come manchi l’abuso del possesso da parte del funzionario infedele (sussistendo invece l’abuso della funzione)”. In questa ipotesi, pertanto, ad avviso di questo orientamento, il reato configurabile è quello di truffa aggravata a norma dell’articolo 61 C.p., n. 9.
In dottrina, il tema dell’applicabilità dell’articolo 48 C.p. alla fattispecie di peculato ha dato luogo ad opinioni diverse.
Secondo un diffuso indirizzo, la disposizione appena citata, sebbene in linea generale deve ritenersi consentire l’applicazione della disciplina del reato cd. proprio nei confronti dell’estraneo anche quando il soggetto dotato della qualifica soggettiva necessaria agisce senza colpevolezza, non opererebbe quando a costituire l’offesa all’interesse tutelato concorre un particolare disvalore di condotta, per la cui realizzazione è necessaria la dolosa partecipazione di un soggetto qualificato. Muovendo da questa premessa, alcuni Studiosi sostengono che in tutti i reati contro la pubblica amministrazione è necessaria la dolosa partecipazione del soggetto qualificato. Altri Autori, però, pur condividendo la premessa indicata, ritengono non integralmente condivisibile tale conclusione, e, con specifico riferimento al peculato, rilevano che la soluzione dipende dall’individuazione dell’interesse tutelato: sviluppando questa prospettiva, vi è chi afferma che la risposta sarà positiva o negativa a seconda che si ritenga che nel delitto previsto dall’articolo 314 C.p. l’interesse protetto sia soltanto il patrimonio della pubblica amministrazione o anche il dovere di lealtà del pubblico ufficiale, e chi, ancor più nettamente, esclude l’esistenza di ostacoli alla combinazione tra le disposizioni di cui agli articoli 48 e 314 C.p. se detto interesse debba individuarsi nel patrimonio, “o anche nel patrimonio”, della pubblica amministrazione.
Altra opinione, invece, reputa che l’articolo 48 C.p. avrebbe una specifica funzione incriminatrice e consentirebbe di affermare comunque la responsabilità del decipiens quando la mancanza di dolo in capo all’autore materiale della condotta illecita derivi dall’inganno.
La Corte di Cassazione ritiene che debba ritenersi configurabile il delitto di peculato, anche a norma dell’articolo 48 C.p., quando il denaro o l’altra cosa mobile è nella disponibilità giuridica concorrente di più pubblici ufficiali, ed uno di essi se ne appropria inducendo in errore gli altri, pure se questi ultimi siano i soggetti competenti ad emettere l’atto finale del procedimento.
La premessa di questa affermazione di principio è costituita dal rilievo che, nelle cd. “procedure complesse”, come appunto le ordinarie procedure di spesa pubblica, la disponibilità giuridica del bene – che costituisce, in alternativa al possesso, il presupposto della condotta rilevante a norma dell’articolo 314 C.p. é frazionata dall’ordinamento giuridico tra più organi, e, quindi, tra più persone fisiche. Questo frazionamento non può ritenersi escludere la configurabilità del delitto di peculato, poiché l’articolo 314 C.p. indica come presupposto della condotta illecita “il possesso o comunque la disponibilità” del bene, ma non anche l’esclusività di tale possesso o di tale disponibilità. Può aggiungersi, d’altro canto, che, se si escludesse l’ammissibilità di una disponibilità giuridica concorrente tra più persone, in quanto preposte ai diversi organi competenti a provvedere in modo coordinato tra di loro in ordine al denaro (o ad altra cosa mobile), si dovrebbe arrivare alla conclusione che, nei casi di “procedure complesse”, nessun organo, e, quindi, nessun soggetto ha la disponibilità giuridica del bene (cfr., per questa osservazione, anche Cass., Sez. 5, n. 15951 del 16/01/2015).
Ciò posto, il pubblico agente che “co-detiene” la disponibilità giuridica della cosa mobile, anche quando induce in errore gli altri pubblici ufficiali con concorrenza competente sulla stessa, al fine di appropriarsene, abusa comunque della propria già esistente disponibilità in ordine al bene.
Precisamente, quando il decipiens, in ragione dell’ufficio o servizio pubblico di cui è incaricato, è anche titolare della disponibilità giuridica sulla cosa mobile, la combinazione tra la previsione di cui all’articolo 48 C.p. e quella di cui all’articolo 314 C.p. consente di ritenere il delitto di peculato a carico di chi, simultaneamente, non solo inganna gli altri pubblici agenti dotati di competenza concorrente, ma anche, e specificamente, abusa di questa sua già esistente disponibilità sul bene conferitagli dall’ordinamento.
Nell’ipotesi indicata, d’altro canto, sono ravvisabili sia la dolosa partecipazione di un soggetto munito della qualifica richiesta, sia la violazione dello specifico dovere di lealtà del pubblico agente che viene in rilievo nella fattispecie di peculato; pertanto, non ricorrono neppure gli ostacoli che parte della dottrina oppone alla applicabilità della disciplina prevista dall’articolo 48 C.p. alla figura criminosa del peculato.
Una volta ammessa l’applicazione del combinato disposto degli articoli 48 e 314 C.p. in riferimento alla condotta di un pubblico agente, non sembrano ipotizzabili nemmeno problemi derivanti dall’astratta configurabilità della fattispecie di truffa aggravata a norma dell’articolo 61 C.p., n. 9, in ragione del principio di specialità.
Invero, è la disciplina relativa al peculato per induzione in errore a presentarsi come speciale rispetto all’altra, proprio perché caratterizzata dalla precedente disponibilità giuridica, sia pur concorrente, in ordine al bene oggetto di appropriazione. D’altro canto, in relazione a fatti riferibili alla tipologia di vicende in esame, se si ritenesse configurabile la truffa aggravata, sarebbe sempre preclusa l’applicazione del combinato disposto degli articoli 48 e 314 C.p., mentre a ravvisare l’operatività di quest’ultima disciplina, la fattispecie di truffa aggravata a norma dell’articolo 61 C.p., n. 9, conserverebbe comunque una sua sfera di intervento nelle ipotesi in cui il pubblico agente non abbia la disponibilità o co-disponibilità del bene.
Corte di Cassazione, Sez. VI, sentenza 9 marzo 2018, n. 10762.