Reciproca conflittualità tra i genitori. Reato di maltrattamenti in famiglia
Con riguardo al caso sub iudice, (cit. Cass. 18833/2018), occorre stabilire se il reato di maltrattamenti in famiglia possa ritenersi integrato dalla condotta serbata dai genitori nei confronti dei loro figli minori “per averli costretti a presenziare alle reiterate manifestazioni di reciproca conflittualità realizzate nell’ambito del rapporto di convivenza (….) mediante ripetuti episodi di aggressività fisica e psicologica, con condotte vessatorie e continui litigi, minacce e danneggiamenti di suppellettili, loro violente liti“.
Pertanto la questione ruota intorno alla configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen. nel caso in cui la condotta in ipotesi maltrattante non si sia tradotta in comportamenti vessatori – fisici e/o psicologici – rivolti direttamente verso la vittima, ma si sostanzi nel far assistere quest’ultima, quale spettatore passivo, alle condotte violente e offensive attuate nei confronti di altra persona.
In linea generale, mette conto di rilevare come il reato di maltrattamenti sia un reato contro la famiglia (precisamente contro l’assistenza familiare) e come il suo oggetto giuridico sia costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica (ex plurimis Cass., Sez. 6 del 24/11/2011 n. 24575).
In ossequio alla ratio ed al bene giuridico protetto, il raggio di copertura dell’incriminazione non può, pertanto, non estendersi a comprendere tutti i soggetti che facciano parte della sfera familiare e che possano subire un pregiudizio alla propria integrità psico-fisica a cagione dei comportamenti aggressivi maturati in detto contesto.
D’altra parte, va sottolineato come la norma all’art. 572 cod. pen. sanzioni la condotta di chi “maltratta“, espressione verbale all’evidenza ampia (tanto da risultare, ad avviso di taluna dottrina, indeterminata), nell’ambito della quale possono pertanto rientrare non soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali (Cass., Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013), potendo il reato essere difatti integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sè, non costituiscono reato (Cass., Sez. 6, n. 13422 del 10/03/2016).
Ne discende che la condotta sanzionata dall’art. 572 cod. pen. non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, può realizzarsi tanto con un’azione, quanto con un’omissione, e può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo (Cass., Sez. 5 del 22/10/2010 n. 41142; Sez. 6 del 21/12/2009, n. 8592).
Occorre rimarcare come l’ampiezza dei confini della materialità del reato sia stata “controbilanciata” in via interpretativa dalla duplice prescrizione che, da un lato, le condotte vessatorie siano state reiterate nel tempo (id est che sussista la c.d. abitualità); dall’altro lato, che l’agire criminoso sia connotato da idoneità offensiva rispetto al bene giuridico tutelato, e cioè che abbia cagionato uno stato di sofferenza psico-fisica nella vittima.
Su questa linea, la Corte ha affermato che il delitto di maltrattamenti può essere integrato anche da comportamenti vessatori che si protraggano per un lasso di tempo limitato, a condizione che ciò sia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa (Cass., Sez. 6, n. 1999 del 09/12/1992). Non è dunque necessario un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto perchè il reato è caratterizzato da un’unità significante costituita da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo: cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze (Cass., Sez. 6, n. 24727 del 27/04/2015).
Deve dunque escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile (in motivazione, la Corte ha precisato che fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma la propria autonomia di reati contro la persona) (Cass., Sez. 6, n. 27/05/2003).
Sotto diverso aspetto, va notato come, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza civile, i maltrattamenti inflitti da un coniuge all’altro in presenza dei figli possono condurre alla dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, a norma dell’art. 330 cod. civ., per le inevitabili ripercussioni negative sull’equilibrio fisiopsichico della prole e sulla serenità dell’ambiente familiare e poichè, ancora, denotano mancanza di quel minimo di disponibilità affettiva e pedagogica richiesto in chi esercita la potestà parentale.
Va, infine, rammentato come il reato di maltrattamenti richieda non un dolo intenzionale – inteso quale perseguimento dell’evento (sofferenza della vittima) come scopo finale dell’azione -, ma soltanto il dolo generico consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza (Cass., Sez. 6, n. 15680 del 28/03/2012).
Tanto premesso quanto agli elementi costituiti (oggettivo e soggettivo) del reato di cui all’art. 572 cod. pen., non è revocabile in dubbio che il delitto di maltrattamenti possa essere configurato anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano (solo) indirettamente quali involontari spettatori delle feroci liti e dei brutali scontri fra i genitori che si svolgano all’interno delle mura domestiche, cioè allorquando essi siano vittime di c.d. violenza assistita. La condotta di chi costringa minore, suo malgrado, a presenziare – quale mero testimone – alle manifestazioni di violenza, fisica o morale, è certamente suscettibile di realizzare un’offesa al bene tutelato dalla norma (la famiglia), potendo comportare gravi ripercussioni negative nei processi di crescita morale e sociale della prole interessata.
D’altronde, costituisce approdo ormai consolidato della scienza psicologica che anche bambini molto piccoli, persino i feti ancora nel grembo materno, siano in grado di percepire quanto avvenga nell’ambiente in cui si sviluppano e, dunque, di comprendere e di assorbire gli avvenimenti violenti che ivi si svolgano, in particolare le violenze subite dalla madre, con ferite psicologiche indelebili ed inevitabili riverberi negativi per lo sviluppo della loro personalità.
Ne consegue che il delitto di maltrattamenti scaturente da una condotta riportabile alla c.d. violenza assistita, proprio perchè fondato su di una relazione non diretta, ma indiretta fra il comportamento dell’agente e la vittima – essendo l’azione rivolta a colpire non il minore, ma altri ovvero, come nella specie, connotandosi per la reciprocità delle offese fra i genitori – postula una prova rigorosa che l’agire – in ipotesi – illecito, per un verso, sia connotato dalla c.d. abitualità; per altro verso, sia idoneo ad offendere il bene giuridico protetto dall’incriminazione, id est abbia cagionato secondo un rapporto di causa-effetto – uno stato di sofferenza di natura psicofisica nei minori spettatori passivi.
Corte di Cassazione, Sez. VI, 02.05.2018, n. 18833