Una particolare forma di scioglimento del matrimonio islamico è il ripudio (ṭalāq) pronunciato dal marito nei confronti della moglie, attraverso formule formali che contengono espressamente il termine ṭalāq o equivalenti, ma che esprimono in modo inequivocabile l’intenzione di porre fine all’autorità maritale sulla sposa. La triplice formula (talaq talaq talaq) che, secondo la consuetudine, doveva essere ripetuta ad intervalli regolari prima di assumere carattere irrevocabile, in alcuni ordinamenti può essere proferita anche una sola volta.
Con il termine Talāq (dal verbo talaqa, lasciare andare) si indica appunto la possibilità riservata all’uomo di sciogliere il matrimonio con un atto unilaterale di volontà, non recettizio, che può quindi essere perfezionato anche senza che la moglie ne sia conoscenza. È un diritto che l’uomo può consentire ad altri di esercitare, tanto che, può addirittura essere previsto nel contratto matrimoniale che sia la moglie stessa, autoripudiandosi, a porre fine al matrimonio.
Oggi, in molti codici del diritto islamico, il ripudio è collocato all’interno di un procedimento giudiziario, avendo gradualmente perduto il suo originario carattere negoziale, e si è cercato di attenuarne il carattere arbitrario, ma continua comunque ad essere previsto nella gran parte degli ordinamenti giuridici arabo-islamici. Generalmente, l’autorità che interviene svolge spesso funzioni di omologazione, talvolta anche funzioni decisorie, ma pur sempre limitate a recepire la volontà unilaterale del marito. Infatti, il provvedimento che incorpora il ripudio (ṭalāq) recepisce il potere unilaterale di ripudio con funzioni di omologa e di presa d’atto della volontà del marito di sciogliersi dal matrimonio.
Gli aspetti che maggiormente hanno risentito dei tentativi di modernizzazione dell’istituto riguardano dunque sia la forma, che viene codificata, sia le modalità di determinazione dell’indennizzo, dovuto dal marito alla moglie in caso di ripudio ingiustificato.
Secondo il diritto islamico, il ripudio può essere revocabile e irrevocabile e, se il matrimonio è stato consumato, il ripudio diviene irrevocabile e scioglierà il contratto matrimoniale solo se il marito per tre volte, ad intervalli di tempo prefissati, confermerà l’intenzione con la ripetizione della formula.
Prima dello scadere del periodo di tre mesi, il marito ha la facoltà di ritrattare il ripudio pronunciato e riprendere la vita in comune. Trascorsi i tre mesi, senza la ritrattazione o senza la pronuncia di un nuovo ripudio revocabile, il matrimonio è sciolto. Il ṭalāq può essere anche ripetuto nelle stesse formule del primo, ma non più di tre volte.
Il riconoscimento di tale provvedimento straniero nel nostro ordinamento italiano è regolato dagli artt. 64 ss. della L. 218/1995.
Queste norme prevedono un riconoscimento automatico del provvedimento straniero, purché in esso ricorrano i requisiti ivi previsti.
Per i provvedimenti stranieri in materia personale e familiare, occorre l’annotazione in pubblici registri in Italia e l’autorità preposta alla tenuta dei pubblici registri “dovrà operare un giudizio, ancorché non tecnicamente delibativo, di riconoscibilità a fini attuativi“, dovrà, cioè, verificare la sussistenza dei requisiti previsti dagli artt. 64 e 65 L. n. 218/1995 cit..
Quando l’autorità preposta è l’ufficiale di stato civile, gli artt. 64-65 Legge cit. debbono coordinarsi con gli art. 95 ss. D.P.R. 3 Novembre 2000 n. 396 sull’ordinamento dello stato civile, secondo cui l’interessato “deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile.., presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento“, nel caso in cui l’ufficiale di stato civile rifiuti l’annotazione in quanto ritiene insussistenti i requisiti previsti dagli artt. 64-65 L. n. 218/1995. E ciò può avvenire anche sotto il profilo che l’ufficiale di stato civile, richiesto di trascrivere “le sentenze e gli altri atti con cui si pronuncia all’estero la nullità, lo scioglimento, la cessazione degli effetti civili di un matrimonio” (art. 63, comma 2, lett. g) D.P.R. n. 396/2000), ritenga di applicare l’art. 18 D.P.R. n. 396/2000, secondo cui “gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico“.
Esclusa la generale applicabilità dell’art. 64, poiché il ripudio può non conseguire ad un atto assimilabile ad una sentenza, la norma applicabile risulterebbe essere l’art. 65, secondo cui “i provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone, nonché all’esistenza di rapporti di famiglia” hanno effetto in Italia “purché non siano contrari all’ordine pubblico e siano rispettati i diritti essenziali della difesa“.
Questa Corte (Cass. 17463/2013) ha chiarito che “la disciplina del riconoscimento delle sentenze straniere in Italia, così come desumibile dalla Legge 31 maggio 1995, n. 218, non ha delineato un trattamento esclusivo e differenziato delle controversie sui rapporti di famiglia mediante l’art. 65, ma ha descritto, con l’art. 64, un meccanismo di riconoscimento di ordine generale (riservato in sé alle sole sentenze), valido per tutti tipi di controversie, ivi comprese perciò quelle in tema di rapporti di famiglia“; rispetto ad un tale generale modello operativo, “la legge ha affidato, poi, all’art. 65 la predisposizione di un meccanismo complementare più agile di riconoscimento (allargato alla più generale categoria dei “provvedimenti”) riservato all’esclusivo ambito delle materie della capacità delle persone, dei rapporti di famiglia o dei diritti della personalità, il quale, nel richiedere il concorso dei soli presupposti della “non contrarietà all’ordine pubblico” e dell’avvenuto “rispetto dei diritti essenziali della difesa”„ esige tuttavia il requisito aggiuntivo per cui i “provvedimenti” in questione siano stati assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto” (Cass.10378/2004).
La compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli articoli 64 e ss. della Legge n. 218 del 1995, esige una valutazione ampia, comprensiva non solo dei principi fondamentali della Costituzione e dei principi sovranazionali ma anche delle leggi ordinarie e delle norme codicistiche, operazione ermeneutica che necessariamente procede dal caso singolo ma che approda ad un inquadramento di carattere generale, così da consentire un certo ordine nel bilanciamento dei valori in gioco (Cass., S.U., sentenza n. 12193 del 2019).
Nell’ ambito del riconoscimento (degli effetti) della sentenza straniera o del provvedimento straniero, occorre dunque verificarne la compatibilità con i principi giuridici fondamentali tratti dai principi sovranazionali, dalla Costituzione ma, non ultimo, anche dalle leggi ordinarie e dalle norme codicistiche che regolano gli istituti in Italia.
La giurisprudenza di merito e di legittimità sul riconoscimento in Italia del ripudio islamico si è espressa per lo più negativamente.
Le Corti di merito, sin da una decisione della Corte d’appello di Roma del 1948, si sono espresse (fatta eccezione per una pronuncia della Corte d’appello di Cagliari del 2008) negativamente sulle richieste di delibazione di ripudi dichiarati da tribunali islamici, rilevando la mancata compatibilità con l’ordinamento italiano, stante l’assenza di controllo giurisdizionale, malgrado la mancata opposizione della moglie, ritenuta comunque non idonea a trasformare il ripudio in un divorzio consensuale, e la natura discriminatoria delle scelte poste a base della vicenda fattuale, in rapporto al principio di parità tra i coniugi.
Con una risalente sentenza della Corte di legittimità (Cass., n. 3881/1969, con la quale si è negata la possibilità di riconoscere efficacia al ripudio dichiarato presso un ufficio notarile di Teheran nella contumacia della moglie in relazione ad un matrimonio civile celebrato in Italia tra un iraniano ed una cittadina italiana) precisava che se, “a seguito della ratifica della convenzione dell’Aja, l’istituto del divorzio non può ritenersi contrario ai principi dì ordine pubblico, stante la riconosciuta possibilità di dichiarare efficaci in Italia le sentenze straniere di divorzio relative a matrimoni civili contratti da cittadini stranieri, non si concilia, tuttavia, con i principi stessi l’efficacia di una dichiarazione unilaterale di ripudio comunque resa dal marito e comunque ricevuta e certificata dal pubblico ufficiale straniero,…, in quanto essa conduce allo scioglimento del matrimonio non per cause predeterminate dalla legge ed accertabili nell’effettivo contraddittorio di entrambi i coniugi, ma per mera volontà discrezionale del marito stesso“, l’istituto del divorzio islamico si rivelava contrario all’ordine pubblico, in quanto, nel nostro ordinamento, “la famiglia legittima costituisce il fondamento del consorzio civile” ed “il matrimonio – che è alla base della famiglia legittima – è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.) investiti di pari dignità nell’ambito del nucleo familiare“, cosicché “contrasta irrimediabilmente una concessione che elevi il marito ad arbitro della continuazione, o della cessazione del vincolo coniugale, quasi investito, in proposito, di un diritto potestativo, e riduca la moglie a soggetto passivo delle sue determinazioni“. La Corte ha osservato che “indipendentemente, perciò, dalla natura giurisdizionale o meno dell’atto di cui si è chiesta la delibazione, ed anche ammesso che, secondo i principi del nostro ordinamento, l’attività del pubblico ufficiale che lo ha redatto sia in ipotesi riconducibile a quella della giurisdizione amministrativa è assorbente il rilievo che il contenuto di esso è chiaramente contrario all’ordine pubblico“.
In successive pronunce (Cass. 1539/1983; conf. Cass. 5074/1983), si è affermato il principio di diritto, secondo il quale, al fine della delibazione di una sentenza di divorzio resa dal giudice svizzero tra cittadini di quella stessa nazionalità (delibazione disciplinata dalla convenzione italosvizzera del 3 Gennaio 1933, ratificata in Italia con L. 15 Giugno 1933 n. 743), l’ordine pubblico da considerare è quello internazionale, risultante dai principi comuni alle nazioni di civiltà affine ed intesi alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, sì che la delibazione medesima deve ritenersi consentita ogni qualvolta il divorzio sia pronunziato per cause obiettive e predeterminate, non lesive di quei diritti fondamentali, dal che consegue che la delibazione può trovare ostacolo nei principi di ordine pubblico, secondo la citata convenzione, rispetto a un divorzio pronunciato per ripudio unilaterale ovvero per scambio di consensi meramente capriccioso, ma non anche rispetto a un divorzio per concorde volontà dei coniugi stessi, ove essa evidenzi una situazione di irrimediabile frattura della comunione coniugale.
Il principio era stato già espresso da altra sentenza (Cass. 228/1982) nella quale si era chiarito che al fine della delibazione (nel sistema all’epoca operante per il riconoscimento di sentenza straniera) di una sentenza di divorzio resa dal giudice straniero, l’indagine sulla contrarietà o meno di tale statuizione con l’ordine pubblico italiano (ai sensi dell’art. 797 n. 7 C.p.C., vigente) implica una valutazione delle ragioni della decisione, secondo criteri diversi a secondo che essa riguardi cittadini italiani, ovvero sia stata emessa soltanto fra stranieri; nel primo caso, l’ordine pubblico da considerare è quello interno, emergente dai principi essenziali dell’ordinamento nazionale, con la conseguenza che la delibazione può essere concessa solo per un divorzio pronunciato per cause che, se non identiche a quelle contemplate dalla legge italiana, si adeguino nella sostanza agli inderogabili presupposti cui la legge stessa condiziona lo scioglimento del matrimonio; nel secondo caso, l’ordine pubblico da considerare “è quello internazionale, risultante dai principi comuni alle nazioni di civiltà affine ed intesi alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, sicché la delibazione medesima deve ritenersi consentita ogni qualvolta il divorzio sia pronunciato per cause obiettive e predeterminate, non lesive di quei diritti fondamentali, e sottoposte a riscontro giudiziale sulla base di prove adeguate” con la conseguente considerazione, con riguardo alla seconda delle indicate ipotesi, “che la delibazione può trovare ostacolo nella citata norma rispetto ad un divorzio pronunciato per ripudio unilaterale, ovvero per scambio di consensi meramente capriccioso, ma non anche rispetto ad un divorzio per concorde volontà dei coniugi stessi, ove essa evidenzi una situazione di irrimediabile frattura della comunione coniugale“.
Nella sentenza n. 10378/2004, la Corte ha poi statuito che non può essere ritenuta contraria all’ordine pubblico, per il solo fatto che il matrimonio sia stato sciolto con procedure e per ragioni e situazioni non identiche a quelle contemplate dalla legge italiana, una sentenza di scioglimento del matrimonio pronunciata, fra cittadini italiani, dal giudice straniero il quale abbia fatto applicazione del diritto straniero, considerato che “attiene in realtà all’ ordine pubblico solo la esigenza che lo scioglimento del matrimonio venga pronunciato solo all’esito di un rigoroso accertamento – condotto nel rispetto dei diritti di difesa delle parti, e sulla base di prove non evidenzianti dolo o collusione delle parti stesse – dell’irrimediabile disfacimento della comunione familiare, il quale ultimo costituisce l’unico inderogabile presupposto delle varie ipotesi di divorzio previste dall’art. 3 della Legge n. 898/70“; con riguardo poi ai rapporti tra le disposizioni normative di cui agli artt. 64 e 65 L. 218/1995, la Corte di Cassazione, ha precisato che “il nuovo complesso della disciplina del riconoscimento delle sentenze straniere in Italia, così come configurato dalla legge di riforma del sistema italiano di diritto privato italiano n. 218/95, non ha delineato un trattamento esclusivo e “differenziato” delle controversie in tema di rapporti di famiglia riconducendole obbligatoriamente nell’ambito operativo della disciplina di cui all’art. 65 ( e perciò anche dei suoi presupposti), ma ha descritto, con l’art. 64, un meccanismo di riconoscimento di ordine generale (riservato in sè alle sole sentenze), valido per tutti tipi di controversie, ivi comprese perciò anche quelle in tema di rapporti di famiglia e presupponente il concorso di tutta una serie di requisiti descritti nelle lettere da a) a g) di questa ultima disposizione normativa“, cosicché “rispetto ad un tale modello operativo di ordine generale, la legge ha affidato poi, all’art. 65, la predisposizione di un meccanismo complementare più agile di riconoscimento – allargato, di per sè e questa volta, alla più generale categoria dei “provvedimenti” – riservato all’esclusivo ambito delle materie della capacità delle persone, dei rapporti di famiglia o dei diritti della personalità – il quale, nel richiedere il concorso dei soli presupposti della “non contrarietà all’ordine pubblico” e dell’avvenuto “rispetto dei diritti essenziali della difesa”, esige tuttavia il requisito aggiuntivo per cui i “provvedimenti” in questione siano stati assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto” (conf. Cass. 17463/2013).
Nella sentenza n. 13556/2012, la Corte di cassazione, in relazione ad un divorzio texano, ha affermato che nessun principio costituzionale impone che la definitiva regolamentazione dei diritti e dei doveri scaturenti da un determinato status sia dettato in un unico contesto, tant’è che nel nostro ordinamento giuridico è prevista, la sentenza non definitiva di divorzio che statuisce sullo status e rinvia per l’adozione dei provvedimenti conseguenti.
Successivamente (Cass. 9483/2013), la Corte di Cassazione ha precisato che, in sede di delibazione di sentenza straniera, il giudice deve valutare gli “effetti” della decisione nel nostro ordinamento e non la correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o della legge italiana, non essendo consentita un’indagine sul merito del rapporto giuridico dedotto, cosicché “nel caso di sentenza straniera (nella specie emessa dalla Corte Circondariale della contea di Cook, Illinois, USA) relativa alla definizione delle questioni economiche patrimoniali del divorzio, la valutazione della sua non contrarietà all’ordine pubblico riguarda solo la compatibilità dei suoi effetti con i principi di uguaglianza, parità e non discriminazione tra coniugi o con riferimento ai principi che costituiscono il nucleo essenziale ed inviolabile del diritto di proprietà, alla luce del contenuto costituzionale e di derivazione CEDU del diritto stesso“.
Da ultimo (Cass., ordinanza n. 19453/2019), ha chiarito che il riconoscimento automatico delle sentenze straniere presuppone che quelle decisioni siano state adottate nel rispetto delle garanzie processuali fondamentali e dei diritti essenziali di difesa sin dalla costituzione del rapporto processuale, e quindi sin dalla notificazione dell’atto introduttivo del giudizio ai fini della dichiarazione di contumacia e, nel caso di condanna in contumacia, non si può prescindere dalla notificazione (o dalla comunicazione) della domanda giudiziale (o di un atto equivalente) che sia stata effettuata in tempo utile e in modo tale da consentire al convenuto di presentare le proprie difese.
Si impongono due considerazioni:
con riguardo al rispetto del principio dell’ordine pubblico, esso va indentificato, non tanto con il cd. ordine pubblico interno – e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell’ordinamento civile – bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico – giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico (Cass. 17349/2002; cfr. da ultimo, tuttavia, SU. 12913/2019: “In tema di riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 64, comma 1, lett. g), della L. n. 218 del 1995, deve essere valutata non solo alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico“), non vi è dubbio che nel concetto di ordine pubblico rientrino il principio di uguaglianza ed il divieto di discriminazione tra i sessi, nonché il diritto di difesa ed il principio per il quale il matrimonio può sciogliersi solamente al ricorrere del presupposto dell’accertamento del disfacimento della comunione di vita famigliare e nella specie tali principi non risultino rispettati.
Occorre quindi richiamare gli artt. 2, 3 e 29 Cost., l’art.14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“Divieto di discriminazione: il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione“), l’art. 5, settimo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’ Uomo (“Uguaglianza degli sposi. I coniugi godono dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento. Il presente articolo non impedisce agli Stati di adottare le misure necessarie nell’interesse dei figli“), l’art.16 della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, ratificata dall’Italia nel 1985 (ove si prevede che prevede che gli Stati devono prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione contro le donne in tutte le questioni relative al matrimonio e ai rapporti familiari e in particolare devono garantire, su una base di uguaglianza tra uomini e donna: lo stesso diritto di contrarre matrimonio; lo stesso diritto di scegliere liberamente il coniuge e di contrarre matrimonio soltanto con libero e pieno consenso; gli stessi diritti e le stesse responsabilità nell’ambito del matrimonio e all’ atto del suo scioglimento); sotto il profilo processuale, gli artt.111 Cost. e l’art.6 della CEDU, che prescrive l’esigenza di un processo equo ed in condizioni di parità sostanziale e processuale tra le parti.
Alla luce delle suddette considerazioni, va quindi fissato il seguente principio di diritto: “Una decisione di ripudio emanata all’estero da una autorità religiosa, … seppure equiparabile, secondo la legge straniera, ad una sentenza del giudice statale, non può essere riconosciuta all’interno dell’ordinamento giuridico statuale italiano a causa della violazione dei principi giuridici applicabili nel foro, sotto il duplice profilo dell’ordine pubblico sostanziale (violazione del principio di non discriminazione tra uomo e donna; discriminazione di genere) e dell’ordine pubblico processuale (mancanza di parità difensiva e mancanza di un procedimento effettivo svolto nel contraddittorio reale)“.
Corte di Cassazione Civile Sent. Sez. 1 n. 16804/2020