Abnormità funzionale
Le Sezioni Unite della Corte di legittimità hanno posto in luce come sussista abnormità funzionale, quando l’atto, pur non essendo estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo (così, in motivazione, Cass., Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009), potendosene ravvisare un sintomo nel fenomeno della c.d. regressione anomala del procedimento ad una fase anteriore (così, in motivazione, Cass., Sez. U., n. 5307/2008 del 20/12/2007; v. anche Sez. 2, n. 7320/2014 del 10/12/2013; Sez. 2, n. 29382 del 16/05/2014; Sez. 2, n. 2484/2015 del 21/10/2014). E si è al proposito precisato che «l’abnormità funzionale, riscontrabile, come si è detto, nel caso di stasi del processo e di impossibilità di proseguirlo, va limitata all’ipotesi in cui il provvedimento giudiziario imponga al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo. Solo in siffatta ipotesi il pubblico ministero può ricorrere per cassazione lamentando che il conformarsi al provvedimento giudiziario minerebbe la regolarità del processo; negli altri casi egli è tenuto ad osservare i provvedimenti emessi dal giudice» (così, in motivazione, Cass., Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009).
Ne consegue che secondo il preferibile orientamento della Corte di legittimità è abnorme, in quanto determina una indebita regressione del procedimento, l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che, investito di richiesta di rinvio a giudizio, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio (Cass., Sez. 5, n. 35153 del 19/04/2016; Sez. 3, n. 51424 del 18/09/2014). In tali casi, di fatti, il provvedimento – pur in astratto frutto di un potere conferito dalla legge al giudice – determina uno stallo nel procedimento (Sez. 3, n. 25204 del 08/05/2008), dovendo, altrimenti, il pubblico ministero porre in essere un atto viziato da nullità, vale a dire l’esercizio dell’azione penale con citazione diretta a giudizio per un reato che prevede la celebrazione dell’udienza preliminare.
Nel caso di specie ricorre questa situazione, poiché, qualora il pubblico ministero esercitasse l’azione penale con citazione diretta a giudizio, porrebbe in essere un atto nullo, con le conseguenze previste dall’art. 550, comma 3, cod. proc. pen., trattandosi di reato per il quale, al momento della richiesta di rinvio a giudizio correttamente avanzata ex art. 416 cod. proc. pen., era prevista, come tuttora lo è, la celebrazione dell’udienza preliminare.
La particolarità del caso di specie induce a ritenere che il giudice abbia inteso considerare che il reato contestato, al momento della sua commissione, rientrava tra quelli per i quali si doveva procedere con citazione diretta a giudizio, non dando invece rilievo al fatto che così non era più nel momento di avvenuto esercizio dell’azione penale.
Di fatti, il reato di cui all’art. 4, comma 4-bis, I. 401/1989, all’epoca della sua commissione, era qualificato come contravvenzione, mentre – con il già citato d.l. n. 4/2019, conv., con modiff., in L. n. 26/2019 – è stato trasformato in delitto, punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da 20.000 a 50.000 euro. Allorquando è stata esercitata l’azione penale con richiesta di rinvio a giudizio, per il reato ascritto occorreva dunque procedere alla celebrazione dell’udienza preliminare.
Si rileva che, in materia processuale, vale il principio tempus regit actum (cfr., ex multis, Sez. U, n. 44895 del 17/07/2014; Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011), sicché ai fini dell’applicazione del disposto di cui all’art. 550, comma 1, cod. proc. pen. – che, per quanto qui interessa, prevede che il pubblico ministero eserciti «l’azione penale con la citazione diretta a giudizio quando si tratta di contravvenzioni o di delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva» – occorre avere riguardo ai reati siccome qualificati (delitti o contravvenzioni) e puniti al momento in cui viene esercitata l’azione penale, indipendentemente da quale fosse, sul punto, la legge vigente al momento della commissione del fatto. Il diverso principio giusta il quale, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo» (art. 2, quarto comma, cod. pen.) ha infatti valenza esclusivamente sostanziale, come chiaramente mostra la sedes materiae. In via generale, del resto, e prescindendosi doverosamente dal caso di specie, l’individuazione della legge più favorevole non è sempre agevole e spesso postula una valutazione in concreto (cfr., ad es., Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019; Sez. 4, n. 6369 del 16/12/2016, dep. 2017; Sez. 3, n. 3385 del 17/11/2016) che mal si presta alla gestione delle regole processuali, le quali necessitano invece di univoca, ed immediata, individuazione. Proprio a tal fine, del resto, l’art. 550, comma 1, cod. proc. pen. precisa che «per la determinazione della pena si osservano le disposizioni dell’articolo 4» dello stesso codice di rito, vale a dire quelle per la determinazione della competenza, giusta le quali «si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato» e «non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale»: regole astratte e formali, di semplice individuazione.
Corte di Cassazione Penale sentenza Sez. 3 n. 18297 del 2020