Articolo 10 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

Articolo 10 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo Concorso di persone nel reato Disciplina sull'assenza Sequestro di persona a scopo di estorsione Rapina Travisamento della prova forma dell'impugnazione Mancata assunzione di una prova decisiva Sentenza predibattimentale di proscioglimento Il principio di ne bis in idem Incidente probatorio Reato continuato Induzione indebita a dare o promettere utilità Attenuante del ravvedimento operoso Attenuante della collaborazione processuale Attenuanti generiche La sospensione condizionale della pena Prova e indizi Responsabilità Applicazione della pena su richiesta delle parti Misure alternative alla detenzione carceraria Defendendi Il principio di offensività Reato continuato Atti sessuali con minorenne Particolare tenuità del fatto Il reato di furto Regime di procedibilità per taluni reati Ricettazione Omicidio preterintenzionale beni culturaliArticolo 10 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, (“la Convenzione”)

Nel caso di specie il ricorrente ha sostenuto che la sua condanna per diffamazione a mezzo stampa e per omesso controllo del contenuto di articoli pubblicati in un giornale da lui diretto avevano violato il suo diritto alla libertà di espressione, garantito dall’articolo 10 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il quale recita:

1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, ala sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

In merito alla proporzionalità del reato commesso alla sanzione inflitta della pena detentiva.

In particolare, l’irrogazione della pena detentiva era stata giustificata da una serie di fattori concorrenti, quali la sussistenza della circostanza aggravante della “attribuzione di un fatto determinato”; la personalità del ricorrente, i suoi precedenti penali (in quanto il ricorrente era recidivo) e il fatto che la pubblicazione di informazioni false aveva leso la reputazione di un magistrato.

Nella specie vengono in rilievo le seguenti disposizioni.

L’articolo 57 del codice penale, intitolato “Reati commessi col mezzo della stampa periodica”, prevede:

Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo.

L’articolo 595 del codice penale definisce il reato di diffamazione. Le parti pertinenti di tale articolo recitano:

Chiunque (…), comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a EUR 1.032.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a EUR 2.065.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in un atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a EUR 516.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, (…) le pene sono aumentate.”

L’articolo 13 della Legge 8 febbraio 1948 n. 47 (in prosieguo “Disposizioni sulla stampa”), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 43 del 20 febbraio 1948, per quanto pertinente, recita:

Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa (…).

La valutazione della Corte.

Occorre valutare se la condanna del ricorrente costituisse un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione di cui all’articolo 10 § 1 della Convenzione., (se l’ingerenza in questione fosse stata “necessaria in una società democratica” e proporzionata alla sanzione inflitta, secondo paragrafo dell’articolo 10).

Deve pertanto essere determinato se essa fosse “prevista dalla legge”, se perseguisse uno o più fini legittimi esposti in tale paragrafo e se fosse “necessaria in una società democratica” per conseguire il fine o i fini pertinenti.

In particolare, la Corte sottolinea che il criterio della “necessità in una società democratica” esige che essa determini se l’ingerenza lamentata corrispondesse a una “pressante esigenza sociale”, se i motivi addotti dalle autorità nazionali per giustificare l’ingerenza fossero “pertinenti e sufficienti” e se la sanzione inflitta fosse “proporzionata al fine legittimo perseguito”.

Sull’applicazione dei summenzionati principi al caso di specie.

Nel caso di specie i tribunali nazionali hanno ritenuto che il contenuto degli articoli avesse dato al pubblico informazioni sbagliate, avendo fornito informazioni false nonostante le rettifiche divulgate il giorno prima della loro pubblicazione. Inoltre, secondo la Corte, il ricorrente aveva infangato gravemente l’onore della persona offesa e il suo diritto alla vita privata, nonché quello di tutte le persone coinvolte.

In aggiunta, la Corte ritiene che il ricorrente non aveva osservato l’etica del giornalismo, riferendo informazioni false senza controllarne prima la veridicità.

La Corte sottolinea inoltre che il direttore di un giornale non può essere dispensato dall’obbligo di esercitare un controllo sugli articoli pubblicati da esso ed è responsabile del loro contenuto.

Alla luce delle considerazioni di cui sopra, e visto il margine di apprezzamento lasciato agli Stati contraenti in tale materia, la Corte ritiene che le autorità interne avessero il diritto di considerare necessario limitare l’esercizio del diritto del ricorrente alla libertà di espressione e che conseguentemente la sua condanna per diffamazione e omesso controllo soddisfaceva una “pressante esigenza sociale”. Ciò che rimane da determinare è se l’ingerenza in questione fosse proporzionata al fine legittimo perseguito, alla luce delle sanzioni inflitte.

Benché l’irrogazione delle pene sia in linea di principio una materia di competenza dei tribunali nazionali, la Corte ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza (si veda, Cumpănă e Mazăre c. Romania, [GC], n. 33348/96, § 115, CEDU 2004-XI). A tale riguardo, la Corte rileva le recenti iniziative legislative da parte delle autorità italiane finalizzate, in linea con le recenti pronunce della Corte contro l’Italia, a limitare il ricorso a sanzioni penali per il reato di diffamazione, e a introdurre un’importante misura positiva, ovvero l’abolizione della pena della reclusione per il reato di diffamazione.

La Corte ritiene che, date le circostanze del caso di specie, l’inflizione di una pena detentiva non fosse giustificata. Tale sanzione, per sua stessa natura, ha inevitabilmente un effetto dissuasivo (si veda, mutatis mutandis, Kapsis e Danikas c. Grecia, n. 52137/12, § 40, 19 gennaio 2017). Il fatto che la pena detentiva del ricorrente sia stata sospesa non modifica tale conclusione, in quanto la singola commutazione di una pena detentiva in una sanzione pecuniaria è una misura soggetta al potere discrezionale del Presidente della Repubblica italiana. Inoltre, mentre tale atto di clemenza esime i condannati dall’espiazione della pena, esso non estingue gli effetti penali della loro condanna.

Le considerazioni di cui sopra sono sufficienti a permettere alla Corte di concludere che la sanzione penale inflitta al ricorrente è stata per natura e severità manifestamente sproporzionata al fine legittimo invocato.

La Corte conclude che nel caso di specie i tribunali interni hanno ecceduto quella che avrebbe costituito una “necessaria” restrizione della libertà di espressione del ricorrente. L’ingerenza non era pertanto “necessaria in una società democratica”.

Vi è conseguentemente stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE CAUSA SALLUSTI c. ITALIA, SENTENZA STRASBURGO 7 marzo 2019

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