Permesso di soggiorno per motivi umanitari

permesso di soggiorno per motivi umanitari Giudizio di rinvio Scritto anonimo Decreto di citazione a giudizio Guida in stato di alterazione psico-fisica Provvedimento abnorme Provocazione modifica della qualificazione giuridica della condotta Programma di trattamento Caparra confirmatoria Mutatio ed emendatio libelli Ripudio Amministrazione di sostegno Divario minimo d'età Revoca della patente di guida quantificazione della sanzione accessoria Legittimazione ad impugnare Iscrizione della messa alla prova nel casellario giudiziario Sostituzione della pena Applicazione della sanzione amministrativa accessoria Tempus regit actum Il decreto penale di condanna Interesse concreto ad impugnare da parte del pubblico ministero Interesse ad impugnare Dissenso Correlazione tra accusa e sentenza Competenza ad irrogare la sanzione amministrativa accessoria Determinazione della durata della sanzione amministrativa accessoria Vendita di prodotti industriali con segni mendaci Riproduzione abusiva di 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Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è regolato, nei suoi presupposti, dall’art. 5, comma 6, del D.lgs. 286/1998 (Testo unico dell’immigrazione), che stabilisce che “il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione“.

Parimenti l’art. 11, lett. c ter), D.P. R. 394/1999, regola il rilascio da parte della Questura di tale titolo di soggiorno su richiesta del parere delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale o previa acquisizione di documentazione riguardante i motivi della richiesta stessa, “relativi ad oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale“. Infine, l’art. 28, lett. d), D.P.R. 394 cit., disciplina l’ipotesi del rilascio del permesso umanitario nei casi – stabiliti, a loro volta, dall’art. 19, D.lgs. 286/98 – in cui non possa disporsi l’allontanamento verso un altro Stato a cagione del rischio di persecuzioni o torture, in attuazione del principio del non refoulement sancito dall’art. 19, comma secondo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

L’art. 3, comma 1, della L. n.110 del 2017 ha introdotto il comma 1.1., dopo il comma 1 dell’art. 19, nel quale è previsto un sostanziale ampliamento delle condizioni di riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria essendo stato aggiunto il fondato motivo di essere sottoposti a tortura e, comunque essendo stato espressamente imposto di tenere conto nel giudizio da svolgere delle “violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani“.

La disposizione è rivolta non tanto alla enucleazione di condizioni soggettive di vulnerabilità quanto alla verifica del livello di tutela o, al contrario, di violazione dei diritti
umani nel paese di origine, così da evidenziare l’intangibilità di un nucleo ineliminabile di essi. Peraltro l’insufficienza della situazione di vulnerabilità intesa in senso astratto e non calato nella complessiva condizione del richiedente tratta da indici soggettivi e oggettivi (questi ultimi riferibili al paese di origine), è rilevabile nel comma 2 bis dell’art. 19, nel quale si precisa, da un lato, che possono sussistere situazioni qualificabili come vulnerabili che non giustificano il riconoscimento della protezione umanitaria e possono determinare il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione e dall’altro che a tali misure occorre dare attuazione con modalità compatibili con le singole situazioni personali debitamente accertate.

Le caratteristiche generali della protezione umanitaria

La protezione umanitaria costituisce una forma di tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia, come rende evidente l’interpretazione letterale dell’art. 32, comma 3, del D.lgs. 25/2008 (cd. decreto “procedure“), in base a cui “nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale” (nella forma del rifugio o della protezione sussidiaria) e “ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del Decreto Legislativo 25 Luglio 1998, n. 286“.

Ne discende che la protezione umanitaria è collocata in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale, potendo l’autorità amministrativa e giurisdizionale procedere alla valutazione della ricorrenza dei presupposti della prima soltanto subordinatamente all’accertamento negativo della sussistenza dei presupposti delle seconde (Cass. n. 15466 del 07.07.2014).

Il quadro europeo

Pur non avendo un esplicito fondamento nell’obbligo di adeguamento a norme internazionali o europee, tale forma di protezione è tuttavia richiamata dalla Direttiva comunitaria n. 115/2008, che all’art. 6, par. 4, prevede che gli Stati possano rilasciare in qualsiasi momento, “per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura“, un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di una Paese terzo il cui soggiorno è irregolare.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha altresì chiarito che gli Stati membri possono concedere forme di protezione umanitaria e caritatevole diverse e ulteriori rispetto a quelle riconosciute dalla normativa europea (in particolare la direttiva n. 95 del 13.12.2011, c.d. direttiva “qualifiche“), purché non modifichino i presupposti e l’ambito di applicazione della disciplina derivata dell’Unione, com’è stabilito dall’art. 3 della direttiva n. 95/2011, che consente l’introduzione o il mantenimento in vigore di disposizioni più favorevoli in ordine ai presupposti sostanziali della protezione internazionale, purché non incompatibili con la direttiva medesima.

Le inferenze

I “seri motivi” di carattere umanitario oppure risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano (art. 5, comma 6, cit.), alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (Cass., Sez. U., n. 19393/2009 e Cass., Sez. U., n. 5059/2017), non vengono tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore, cosicché costituiscono un catalogo aperto (Cass. n. 26566/2013), pur essendo tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza qualificabile come umanitaria, cioè concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (Cass., Sez. U., 19393/2009).
Infine, la protezione umanitaria costituisce una delle forme di attuazione dell’asilo costituzionale (art. 10, terzo comma Cost.), secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 10686 del 2012; Cass., n. 16362 del 2016), unitamente al rifugio politico ed alla protezione sussidiaria, evidenziandosi anche in questa funzione il carattere aperto e non integralmente tipizzabile delle condizioni per il suo riconoscimento, coerentemente con la configurazione ampia del diritto d’asilo contenuto nella norma costituzionale, espressamente riferita all’impedimento nell’esercizio delle libertà democratiche, ovvero ad una formula dai contorni non agevolmente definiti e tutt’ora oggetto di ampio dibattito.

L’integrazione sociale

Il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine, idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condizione di “vulnerabilità” può, tuttavia, avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. L’allegazione di una situazione di partenza di vulnerabilità, può, pertanto, non essere derivante soltanto da una situazione d’instabilità politico-sociale che esponga a situazioni di pericolo per l’incolumità personale, anche non rientranti nei parametri dell’art. 14 D.lgs n. 251 del 2007 o a condizioni di compromissione dell’esercizio dei diritti fondamentali riconducibili alle discriminazioni poste a base del diritto al rifugio politico, ma non aventi la peculiarità della persecuzione personale potenziale od effettiva. La vulnerabilità può essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, non potendo tale primario diritto della persona trovare esclusivamente tutela nell’art. 36 del D.lgs n. 286 del 1998 oppure può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili). Queste ultime tipologie di vulnerabilità richiedono, tuttavia, l’accertamento rigoroso delle condizioni di partenza di privazione dei diritti umani nel paese d’origine perché la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano la dignità. Ne consegue che il raggiungimento di un livello d’integrazione sociale, personale od anche lavorativa nel paese di accoglienza può costituire un elemento di valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza di una delle variabili rilevanti della vulnerabiltà” ma non può esaurirne il contenuto. Non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili. Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa può ed anzi deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità. L’accertamento della situazione oggettiva del Paese d’origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce delle peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere. (Cass. n. 420/2012; n. 359/2013; n. 15756/2013).

La valutazione della vulnerabilità

È necessaria, pertanto, una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.).
Deve precisarsi, al riguardo, che, così come per il giudizio di riconoscimento dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria, incombe sul giudice il dovere di cooperazione istruttoria officiosa, così come previsto dall’art. 8 del D.lgs n.25 del 2008 in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al paese di origine anche in ordine alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria.
Del resto all’interno del sistema giurisdizionale relativo alla protezione internazionale, così come regolato dai D.lgs n. 251 del 2007 e 25 del 2008 e successive modificazioni, la sussistenza delle condizioni di vulnerabilità poste a base della protezione umanitaria deve essere verificata officiosamente dalle Commissioni territoriali (art. 32 del D.lgs n. 25 del 2008) quando non vi siano i requisiti per lo status di rifugiato e per la protezione sussidiaria, non operando, in tale fase del procedimento, il principio dispositivo.
Correlato a tale caratteristica propria soltanto dell’accertamento delle condizioni di vulnerabilità ai fini della protezione umanitaria, è il dovere d’integrazione istruttoria officiosa che permea anche nella fase giurisdizionale di merito l’accertamento delle condizioni soggettive ed oggettive riguardanti la protezione umanitaria. Tale peculiare accertamento, una volta verificata la proposizione della domanda in via subordinata od esclusiva, rivolta al riconoscimento di un permesso di natura umanitaria, impone al giudice di verificare se le allegazioni e le complessive acquisizioni istruttorie, pur se predisposte normalmente in funzione del riconoscimento degli status tipici, non conducano all’accertamento di una condizione qualificata di vulnerabilità, ai fini della verifica della quale non è necessaria, oltre alla formulazione della domanda, un corredo ulteriore di allegazione e prova. La rilevata conformazione della ripartizione dell’onus probandi non consente, tuttavia, di eludere la necessità della valutazione comparativa che prenda le mosse dalla condizione attuale del paese di origine al fine di porla in relazione con la conquistata condizione d’integrazione socio economica e di verificare se il rientro determini la specifica compromissione dei diritti umani adeguatamente riconosciuti e goduti nel nostro paese.

Il giudizio comparativo

Deve, infatti, osservarsi che il diritto al rispetto della vita privata, tutelato dall’art. 8 CEDU al pari del diritto al rispetto della familiare, può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale.
Al riguardo un riscontro normativo indiretto della necessità di operare un bilanciamento in sede di riconoscimento della protezione umanitaria è fornito dagli artt. 3, comma quarto; 9, comma secondo; e 15, comma secondo, del D.lgs. 251/2007, nei quali sono considerati “gravi motivi umanitari” quelli che comportano un vero e proprio impedimento al ritorno nel Paese d’origine. Tali norme, riguardanti rispettivamente il rifugio politico e la protezione sussidiaria, prevedono che, se il richiedente ha già subìto persecuzioni o danni gravi ma sussistano elementi per ritenere che non li subirà più in futuro, non può comunque negarsi il riconoscimento dello status qualora sussistano i gravi motivi umanitari; per la medesima ragione non può disporsi la cessazione dello status che sia stato già riconosciuto pur a fronte di un mutamento delle circostanze iniziali.
Parimenti gli artt. art. 11, lett. c-ter), e 28, lett. d), del D.P. R. 394/1999, sopra richiamati, pongono a fondamento del permesso umanitario l’esistenza di fattori impeditivi al rimpatrio. Inoltre, il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero ancorerebbe tale forma di soltanto a circostanze di carattere stabile e tendenzialmente permanente, mentre il complessivo regime giuridico proprio delle misure di natura umanitaria sembra ispirato alla tutela di situazioni tendenzialmente transitorie e in divenire, come si evince dell’art. 14, comma quarto, D.P.R. 21/2015, che stabilisce il rilascio da parte del Questore di “un permesso di soggiorno di durata biennale” ove la Commissione nazionale, in sede di cessazione o revoca dello status di protezione internazionale riconosciuto, accerti la sussistenza di “gravi motivi di carattere umanitario“. In ciò si coglie la differenza decisiva rispetto agli status di protezione internazionale, al cui riconoscimento consegue, invece, la concessione di un permesso di soggiorno di durata quinquennale (art. 23, D.lgs. 251/2007), che costituisce titolo, al concorrere degli altri requisiti previsti, per il rilascio di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, facoltà che viene espressamente esclusa per coloro che sono titolari di un permesso umanitario (art. 9, comma terzo, lett. b), D.lgs. 286/1998) .
Quanto, invece, al secondo aspetto, relativo alla generale violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza, esso costituisce un necessario elemento da prendere in esame nella definizione della posizione del richiedente, come si evince pure dal già richiamato comma 1.1 dell’art. 19, D.lgs. 286 del 1998 che nella verifica della sussistenza del rischio di sottoposizione a tortura in caso di rimpatrio, impone la valutazione dell’esistenza, nello Stato verso cui il soggetto si troverà ad essere allontanato, di “violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani“. Tale elemento, tuttavia, deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente, perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativa di cui all’art. 5, comma 6, D.lgs. 286 cit., che nel predisporre uno strumento duttile quale il permesso umanitario, demanda al giudice la verifica della sussistenza dei “seri motivi” attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, quali, ad esempio, le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo Paese, con onere in capo al medesimo quantomeno di allegare suddetti fattori di vulnerabilità (Cass. n. 7492/2012, par. 3).

Corte di Cassazione Civile Sent. Sez. 1 n. 4455 Anno 2018

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