Norma Rae è un film drammatico del 1979 che con la regia di Martin Ritt e con l’interpretazione di una giovanissima Sally Field e dell’attore statunitense Beau Bridges, vince due Premi Oscar nel 1980, di cui uno come Migliore attrice protagonista a Sally Field, due Nomination all’Oscar e un Golden Globe, come Miglior attrice in un film drammatico a Sally Field, e due Nomination sempre nello stesso anno.
Norma Rae è la storia di una giovane donna, operaia di un’azienda tessile, nella ricerca prima e nell’affermazione poi dei propri diritti di lavoratrice. Il film si svolge in una piccola cittadina dell’Alabama, conservatrice ed arretrata, nel sud degli Stati Uniti, e il lavoro, stressante e malpagato, ruota intorno alla fabbrica tessile.
L’arrivo del sindacalista Reuben Warshowsky porterà uno sconvolgimento dello stile di vita sia all’interno che all’esterno della fabbrica e la protagonista inizierà a combattere per affermare i propri diritti come persona e come lavoratrice; una vera e propria lotta di classe che porterà alla costituzione del sindacato all’interno della fabbrica.
In Italia le rappresentanze sindacali aziendali trovano una tutela nell’art. 19 Statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300) secondo cui le: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito: b) delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva“.
L’articolo 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori è stato ripetutamente sottoposto all’esame della Corte Costituzionale.
Le prime pronunce hanno riguardato la versione originaria di detto articolo, anteriore al referendum del 1995, ossia quella per la quale “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva“.
I dubbi di legittimità costituzionale investivano, in quel contesto, la mancata attribuzione ad ogni associazione sindacale esistente nel luogo di lavoro della possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali.
Nell’affermare la razionalità del disegno statutario, con i due livelli di protezione accordata alle organizzazioni sindacali (libertà di associazione, da un lato, e selezione dei soggetti collettivi fondata sul principio della loro effettiva rappresentatività, dall’altro), la Corte si è soffermata anche sul criterio della “maggiore rappresentatività”, che pur conducendo a privilegiare le confederazioni “storiche”, non precludeva rappresentanze aziendali nell’ambito delle associazioni sindacali non affiliate alle confederazioni maggiormente rappresentative, purché si dimostrassero capaci di esprimere, attraverso la firma di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva, un grado di rappresentatività idoneo a tradursi in effettivo potere contrattuale a livello extra-aziendale (sentenze n. 334 del 1988 e n. 54 del 1974).
A partire dalla seconda metà degli anni ottanta si è sviluppato, però, un dibattito critico in vista di una esigenza di revisione del meccanismo selettivo della “maggiore rappresentatività” previsto ai fini della costituzione delle rappresentanze nei luoghi di lavoro.
Ed è stata proprio questa Corte a segnalare, con un monito al legislatore, l’ormai ineludibile esigenza di elaborare nuove regole che conducessero a un ampliamento della cerchia dei soggetti chiamati ad avere accesso al sostegno privilegiato offerto dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori, oltre ai sindacati maggiormente rappresentativi (sentenza n. 30 del 1990).
L’invito al legislatore è stato ribadito nella sentenza n. 1 del 1994, che ha dato ingresso ai due quesiti referendari che in quell’occasione la Corte era chiamata ad esaminare: il primo, “massimalista”, volto ad ottenere “l’abrogazione di tutti i criteri di maggiore rappresentatività adottati dall’art. 19, nelle lettere a e b“, e il secondo, “minimalista”, mirante all’abrogazione dell’indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lettera a) e all’abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentatività effettiva prevista dalla lettera b).
In quella decisione, nella consapevolezza dei profili di criticità che avrebbero potuto annidarsi nel testo risultante dall’eventuale conformazione referendaria, nuovamente, la Corte sottolineò che, comunque “il legislatore potrà intervenire dettando una disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata, improntata a modelli di rappresentatività sindacale compatibili con le norme costituzionali e in pari tempo consoni alle trasformazioni sopravvenute nel sistema produttivo e alle nuove spinte aggregative degli interessi collettivi dei lavoratori“.
Come è noto, in occasione del referendum indetto con decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1995 e tenutosi l’11 giugno 1995, ottenne il quorum solo “il quesito minimalista”, dando luogo all’attuale art. 19, che attribuisce il potere di costituire rappresentanze aziendali alle sole associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva di qualunque livello essi siano, dunque anche di livello aziendale.
Nel commentare la normativa “di risulta”, non si mancò di sottolineare come questa, pur coerente con la ratio referendaria di allargare il più possibile le maglie dell’agire sindacale anche a soggetti nuovi che fossero realmente presenti ed attivi nel panorama sindacale, rischiasse, però, nella sua accezione letterale, di prestare il fianco ad una applicazione sbilanciata: per un verso, in eccesso, ove l’espressione “associazioni firmatarie” fosse intesa nel senso della sufficienza di una sottoscrizione, anche meramente adesiva, del contratto a fondare la titolarità dei diritti sindacali in azienda (con virtuale apertura a sindacati di comodo); e, per altro verso, in difetto, ove interpretata, quella espressione, come ostativa al riconoscimento dei diritti in questione nei confronti delle associazioni che, pur connotate da una azione sindacale sorretta da ampio consenso dei lavoratori, avessero ritenuto di non sottoscrivere il contratto applicato in azienda. E ciò con il risultato, nell’un caso e nell’altro, di una alterazione assiologica e funzionale della norma stessa, quanto al profilo del collegamento, non certamente rescisso dall’intervento referendario, tra titolarità dei diritti sindacali ed effettiva rappresentatività del soggetto che ne pretende l’attribuzione.
Le pronunzie di questa Corte, nel quinquennio successivo al referendum (sentenza n. 244 del 1996, ordinanze n. 345 del 1996, n. 148 del 1997 e n. 76 del 1998) hanno fornito indicazioni, per quanto in concreto sottoposto al suo esame, solo con riguardo al primo dei due sottolineati punti critici.
E, per questo aspetto, l’art. 19, “pur nella versione risultante dalla prova referendaria“, ha superato il vaglio di costituzionalità sulla base di una esegesi costituzionalmente orientata, che ha condotto ad una sentenza interpretativa di rigetto. In virtù della quale, dalla premessa che “la rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro espresso in forma pattizia“, bensì dalla “capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale“, la Corte ha inferito che “Non è perciò sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto“, e che “nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale di un contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva” (sentenza n. 244 del 1996).
In questi termini, la Corte ha ritenuto che l’indice selettivo di cui alla lettera b), del primo comma, dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori “si giustifica, in linea storico-sociologica e quindi di razionalità pratica, per la corrispondenza di tale criterio allo strumento di misurazione della forza di un sindacato, e, di riflesso, della sua rappresentatività, tipicamente proprio dell’ordinamento sindacale“. (Corte Costituzionale n. 231/2013).