Prostituzione volontaria

Prostituzione volontaria Immobili ed aree di notevole interesse pubblico Reddito di cittadinanza Diffamazione a mezzo stampa giudizio abbreviato e immediato Controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni Libertà e la segretezza della corrispondenza violenza sessuale di gruppoIl fenomeno della prostituzione, vocabolo che designa, in via di prima approssimazione, l’effettuazione di prestazioni sessuali verso corrispettivo, di norma in modo abituale e indiscriminato (senza, cioè, una previa limitazione a specifici partner), rappresenta un tema fra i più problematici per il legislatore penale. Il problema non riguarda, ovviamente, la prostituzione “forzata” o la tratta a fini di sfruttamento sessuale: ipotesi nelle quali è l’esigenza di tutela della persona a reclamare in modo evidente e indiscutibile l’intervento punitivo. Ma quando si tratti della prostituzione volontaria, l’analisi storico-comparatistica è quanto mai restia a esprimere delle costanti, offrendo, nei tempi e nei luoghi, una amplissima gamma di risposte differenziate circa l’an e il quomodo dell’impiego della sanzione penale.

Al fondo della varietà di soluzioni normative, si colloca, peraltro, la preliminare opzione tra due visioni alternative.

In base alla prima, la prostituzione andrebbe riguardata come una scelta attinente all’autodeterminazione in materia sessuale dell’individuo, che dà luogo a un’attività economica legale. L’ordinamento dovrebbe, quindi, lasciare gli individui tendenzialmente liberi di praticare la prostituzione, di fruire del servizio sessuale e di agevolarlo. Si tratterebbe, semmai, solo di regolare opportunamente l’esercizio dell’attività, onde far fronte ai “pericoli” in essa insiti, analogamente a quanto avviene per tutte le attività economiche che comportino “rischi consentiti” dall’ordinamento (cosiddetto modello regolamentarista).

Nella seconda prospettiva, per converso, la prostituzione costituirebbe un fenomeno da contrastare, anche penalmente, in ragione delle sue ricadute negative sul piano individuale e sociale. Tali ricadute si apprezzerebbero su una pluralità di versanti: quello dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili; quello della dignità umana (intesa in una accezione oggettiva, ossia come principio che si impone a prescindere dalla volontà e dalle convinzioni del singolo individuo); quello della salute, individuale e collettiva (non soltanto in rapporto al pericolo di diffusione di malattie trasmissibili sessualmente, ma anche in relazione ai maggiori rischi di dipendenza da droga e alcol, nonché di traumi fisici e psicologici, depressione e disturbi mentali, cui è esposta la persona che si prostituisce); quello, infine, dell’ordine pubblico (tenuto conto delle attività illecite che frequentemente si associano alla prostituzione, quali, ad esempio, oltre alla tratta di persone, il traffico di stupefacenti e il crimine organizzato).

In quest’ottica, la prostituzione viene quindi collocata nell’ambito di una disciplina “di sfavore” variamente calibrata, secondo chi si decida di punire: entrambe le parti del mercimonio sessuale (persona dedita alla prostituzione e cliente: cosiddetto modello proibizionista, adottato, ad esempio, negli Stati Uniti, con alcune eccezioni); ovvero una sola di esse (la quale nelle soluzioni più recenti si identifica nel cliente: cosiddetto modello neo-proibizionista); ovvero, ancora, soltanto le cosiddette condotte parallele alla prostituzione, ossia i comportamenti dei terzi che entrano in relazione con questa, inducendo la persona a esercitare tale attività, ovvero favorendola o traendone utili (cosiddetto modello abolizionista).

La disciplina italiana della materia anteriore alla Legge n. 75 del 1958 si ispirava al modello, di origine francese, del cosiddetto regolamentarismo classico (per distinguerlo dal regolamentarismo contemporaneo, di cui si dirà più avanti), basato sul sistema delle «case di tolleranza» (maisons de tolérance).

L’idea di fondo ad esso sottesa è che la prostituzione rappresenti un “male necessario”, non eliminabile, ma suscettibile e meritevole di essere regolato a fini di tutela dell’ordine pubblico e della salute (idea riflessa anche nel riferimento alla «tolleranza», che compare nel nomen delle case di prostituzione). In questo modello, la prostituzione viene quindi concepita come un’attività sottoposta a controllo di polizia, subordinata al rilascio di un permesso alla singola prostituta e di una licenza per l’esercizio di gruppo, che deve avvenire in appositi edifici rispondenti a una serie di requisiti.

Nel nostro ordinamento, la relativa regolamentazione, particolarmente rigida e capillare, era racchiusa nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (artt. 190 e seguenti del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante «Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza») e nel relativo regolamento (artt. 345 e seguenti del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, recante «Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza»). L’esercizio abituale della prostituzione era consentito solo nei locali dichiarati di meretricio dall’autorità di pubblica sicurezza, controllati dal punto di vista sanitario, aventi particolari caratteristiche (una sola uscita, persiane sempre chiuse), soggetti a specifici orari di apertura e sui quali lo Stato riscuoteva regolari imposte; fuori dalle case di prostituzione, l’attività poteva essere esercitata solo in sede non fissa, costituendo reato il meretricio in luogo chiuso non preventivamente autorizzato; le prostitute erano schedate in un apposito registro, munite di un libretto personale e sottoposte a visite mediche obbligatorie.

In tale cornice, la tutela penale aveva un ambito sensibilmente più ristretto rispetto all’attuale. La materia era disciplinata nel Titolo XI del Libro II del codice penale, dedicato ai «delitti contro la moralità pubblica e il buon costume». Esclusa la punibilità della prostituzione in sé, nel codice Rocco esistevano ovviamente fattispecie incriminatrici contro la prostituzione forzata: ma le “condotte parallele” alla prostituzione volontaria, quali l’istigazione, il favoreggiamento e lo sfruttamento, costituivano reato solo in presenza di particolari condizioni, legate segnatamente, quanto alle prime due ipotesi (istigazione e favoreggiamento), alla qualità dei soggetti passivi (minorenni, persone in stato di infermità o deficienza psichica, stretti congiunti dell’autore del fatto: artt. 531 e 532 C.p.) e, quanto alla terza (sfruttamento), alla circostanza che fosse posto in essere un vero e proprio “sistema di vita” di tipo parassitario in danno della persona dedita alla prostituzione (così venendo ordinariamente inteso dalla giurisprudenza il concetto di farsi «mantenere» da una prostituta, evocato dall’art. 534 C.p.).

Un simile regime si era rivelato, peraltro, largamente insoddisfacente. Pur riconoscendo una parvenza di legittimità all’operato delle donne che si prostituivano, esso non si proponeva, in ultima analisi, di tutelarle. Dietro la patina di tolleranza, si celava, in effetti, una legislazione orientata alla “ghettizzazione”: confinate all’interno delle «case chiuse», schedate e sottoposte a trattamenti sanitari obbligatori, le prostitute si trovavano costrette, di fatto, ad esercitare la loro attività in condizioni di avvilimento e degrado, nonché in situazione di sfruttamento e di sottomissione al tenutario della “casa”.

Nel frattempo, si era peraltro fatto strada in ambito europeo un nuovo modello di disciplina della prostituzione, originato da un movimento sorto in Gran Bretagna: il cosiddetto abolizionismo.

Il suo postulato di partenza è che la prostituzione costituisca una attività lesiva della dignità delle persone che la esercitano, le quali non avrebbero verosimilmente operato una simile scelta in diverse e più favorevoli condizioni economiche e sociali. Lo Stato non dovrebbe, pertanto, regolare tale attività: meno che mai, poi, prevedendo misure, quali le case di prostituzione e gli obblighi di visita medica, che si risolvano, di fatto, in limitazioni della libertà personale del soggetto che si prostituisce.

Nel lungo termine, la prostituzione andrebbe piuttosto eliminata. A questo risultato non si dovrebbe giungere, però, punendo la persona dedita alla prostituzione, perché in tal modo si finirebbe per colpire due volte quelle che sono in realtà vittime del sistema sociale; e neppure punendo il cliente, perché così si scaricherebbe sul semplice fruitore della prestazione una responsabilità della quale dovrebbe farsi carico lo Stato. L’obiettivo dovrebbe essere conseguito invece, da un lato, rimovendo le cause sociali della prostituzione; dall’altro, reprimendo severamente le attività ad essa collegate, quali l’induzione, il lenocinio, lo sfruttamento o anche il semplice favoreggiamento (le “condotte parallele”), così da non consentire alla prostituzione di svilupparsi e di proliferare. Idee, queste, che hanno trovato una significativa eco nella Convenzione per la repressione della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 2 dicembre 1949 e aperta alla firma a Lake Success-New York il 21 marzo 1950, alla quale l’Italia ha aderito il 18 gennaio 1980, depositando il relativo strumento sulla base dell’autorizzazione rilasciata con legge 23 novembre 1966, n. 1173.

Nel nostro Paese, l’adeguamento ai principi abolizionisti ha avuto luogo con la Legge n. 75 del 1958 (cosiddetta Legge Merlin, dal nome della proponente): legge il cui titolo recita significativamente «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui».

La riforma muta radicalmente la prospettiva del modello preesistente. Di là dalle motivazioni di ordine più propriamente etico e morale (delle quali pure i lavori parlamentari recano ampia traccia), si ritiene fondamentalmente, in linea con i ricordati principi abolizionisti, che la scelta di esercitare la prostituzione trovi normalmente la sua matrice in una condizione di vulnerabilità, legata a cause individuali e sociali (quali «la distruzione della vita di famiglia, l’insufficienza dell’educazione, il bisogno», «i rischi speciali inerenti a certe professioni» o il «quadro ambientale» di moralità degradata). La persona che vende prestazioni sessuali è, dunque, potenzialmente una vittima e l’aggressore è la società nel suo complesso. Di qui la necessità che lo Stato si astenga dal rendersi compartecipe dell’“industria del sesso”: «allo Stato, che ha gli stessi doveri verso tutti i cittadini, non è lecito di sacrificare una parte della popolazione, la più debole e la più miserabile, agli uomini che vogliono abusarne» (in questi termini la relazione del senatore Boggiano Pico del 21 gennaio 1955 alla prima commissione permanente del Senato della Repubblica).

Viene evocata, correlativamente, anche l’esigenza di salvaguardia della dignità umana (alla quale fa riferimento pure il preambolo della citata Convenzione delle Nazioni Unite). La pregressa disciplina della materia viene considerata contrastante, in specie, con i principi di «pari dignità sociale» e di promozione dell’eguaglianza sostanziale dei cittadini in vista del «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3 Cost.), con il limite del «rispetto della persona umana» nella previsione di trattamenti sanitari obbligatori (art. 32 Cost.), nonché con i limiti della libertà e della dignità umana cui è soggetta l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) (in questo senso la relazione alla proposta di legge presentata dall’onorevole Tozzi Condivi alla Presidenza della Camera dei deputati il 6 aprile 1956, ove pure si ribadisce come le persone «cadute nella prostituzione» non lo siano «quasi mai per loro decisa e libera volontà», essendo «invece trascinate a quella vita per condizioni di vita famigliare, sociale, affettiva»). Nella medesima relazione, la nuova normativa viene presentata come un provvedimento che mira «non a sopprimere la prostituzione ma soltanto a sopprimere la regolamentazione della prostituzione», impedendo «che nello Stato possa esistere una prostituzione autorizzata e regolamentata» e che «ci siano degli esseri umani che vivano sfruttando legalmente il vizio e la miseria».

A questi fini, la legge vieta, quindi, l’esercizio di case di prostituzione e dispone la chiusura di quelle esistenti (artt. 1 e 2 della legge n. 75 del 1958). Fa espresso divieto, altresì, di qualsiasi forma di registrazione delle donne che esercitano la prostituzione, escludendo che le stesse possano essere obbligate a presentarsi periodicamente alle autorità di pubblica sicurezza o alle autorità sanitarie (art. 7). Prevede, al tempo stesso, misure di rieducazione e reinserimento sociale delle donne che escono dalle case di prostituzione (artt. 8 e 9).

Sul piano penalistico, rimane ferma la non punibilità tanto del soggetto che si prostituisce, a meno che i suoi comportamenti integrino gli estremi della nuova contravvenzione di adescamento o invito al libertinaggio, di cui all’art. 5 della Legge n. 75 del 1958 (contravvenzione poi depenalizzata dal decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, recante «Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205»), quanto del cliente che si limiti a fruire della prestazione sessuale (la cui punibilità sarà poi prevista nella sola ipotesi della prostituzione minorile dall’art. 600-bis C.p., aggiunto dalla Legge 3 agosto 1998, n. 269, recante «Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù»).

Le politiche abolizioniste rivelano, peraltro, chiaramente il loro obiettivo ultimo con la criminalizzazione “a tappeto” delle “condotte parallele” alla prostituzione. Quest’ultima è configurata, bensì, come un’attività in sé lecita: e però le si fa “terra bruciata” attorno, vietando, sotto minaccia di sanzione penale, qualsiasi interazione di terzi con essa, sia sul piano materiale (in termini di promozione, agevolazione o sfruttamento), sia sul piano morale (in termini di induzione).

Le disposizioni di cui agli artt. da 531 a 536 C.p. vengono sostituite, in questa chiave, da quelle dell’art. 3 della Legge n. 75 del 1958, il quale, nei suoi otto numeri, reca un fitto e policromo elenco di condotte incriminate, tutte punite con l’energica pena della reclusione da due a sei anni, oltre la multa (attualmente da euro 258 a euro 10.329).

Nella lista dei comportamenti incriminati figurano anche le due fattispecie che formano oggetto degli odierni quesiti di costituzionalità: il reclutamento di «una persona al fine di farle esercitare la prostituzione» (art. 3, primo comma, numero 4, prima parte) e il favoreggiamento, «in qualsiasi modo», della prostituzione altrui (art. 3, primo comma, numero 8, prima parte).

Per «reclutamento» si intende, in sostanza, l’ingaggio per l’esercizio della prostituzione: e ciò indipendentemente dal fatto che la persona ingaggiata sia già dedita a tale attività o fino a quel momento estranea ad essa. Al lume della corrente esegesi giurisprudenziale, il reclutamento si realizza, in specie, allorché l’agente si attivi al fine di collocare la persona nella disponibilità del soggetto che intende trarre vantaggio dall’attività di meretricio. Per l’integrazione del reato è, quindi, sufficiente un’attività di ricerca della persona da ingaggiare e di persuasione della medesima, mediante la rappresentazione dei vantaggi realizzabili, a recarsi in un determinato luogo e a rimanervi per un certo tempo al fine di esaudire le richieste di prestazioni sessuali dei clienti (ex plurimis, tra le più recenti, Cass., Sez. III, sentenze 20 ottobre 2016-28 marzo 2017, n. 15217 e 12 novembre 2014-27 marzo 2015, n. 12999).

Il favoreggiamento (previsto dal numero 8 in alternativa allo sfruttamento) rappresenta, a sua volta, una fattispecie residuale e “di chiusura”, finalizzata a reprimere tutti quei comportamenti atti a creare condizioni favorevoli per l’esercizio della prostituzione che sarebbero potuti sfuggire altrimenti all’incriminazione, stante la tecnica casistica utilizzata per descrivere le fattispecie di cui ai numeri precedenti. La lata formulazione della disposizione fa sì che essa si presti a reprimere le più svariate condotte che valgono a rendere più facile, comodo, sicuro o lucroso l’esercizio della prostituzione altrui.

L’esperienza più recente ha visto, peraltro, emergere, in ambito europeo, ulteriori modelli di disciplina della prostituzione. Essi muovono dal riscontro delle criticità manifestate dal modello abolizionista nel conseguimento degli obiettivi prefissi: essendosi rilevato che, se, per un verso, nei Paesi che lo hanno adottato la prostituzione non ha affatto registrato una significativa flessione; per un altro verso, esso avrebbe finito per perpetuare la condizione di debolezza sociale della persona che si prostituisce e per esporla a maggiori rischi, sul piano dell’incolumità personale e della salute.

Le soluzioni per far fronte a tali criticità sono state, peraltro, ricercate in due direzioni contrapposte.

Da un lato, si è infatti ritenuto che occorra superare le ambiguità dell’abolizionismo in direzione “liberale”, considerando, cioè, la prostituzione volontaria come un’attività economica lecita a tutti gli effetti, assimilabile alle altre fonti di guadagno e generatrice di ordinari diritti economici e sociali (nonché di doveri fiscali) in capo a coloro che la esercitano. L’attenzione del legislatore si dovrebbe focalizzare, in quest’ottica, essenzialmente sulle cosiddette procedure di riduzione del danno, intese a limitare le conseguenze negative che la vendita di prestazioni sessuali può comportare. Questo approccio è fondamentalmente alla base delle legislazioni “neo-regolamentariste”, di vario taglio, messe in campo a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo in Paesi quali l’Olanda, la Germania, l’Austria e la Svizzera.

In senso diametralmente opposto, si addebita invece all’abolizionismo di “non fare abbastanza” per tutelare la persona che si prostituisce dalla condotta vessatoria degli altri soggetti, fra i quali rientrerebbe lo stesso cliente. Andrebbe perciò eretto un argine più robusto contro l’approfittamento di una condizione di vulnerabilità, che caratterizzerebbe le persone che si prostituiscono.

È sulla scia di questo filone critico dell’“abolizionismo” che si sviluppano le recenti politiche “neo-proibizioniste” adottate da alcuni Paesi europei: politiche che hanno trovato, in certa misura, appoggio anche da parte delle istituzioni dell’Unione europea. In base ad esse, il legislatore penale dovrebbe intervenire per proteggere il soggetto debole (anche) da colui che, attraverso la “domanda” del servizio sessuale, ne alimenta lo sfruttamento: ossia il cliente.

Nella versione più “temperata” di tale modello, il “consumatore” viene punito solo quando acquisti servizi sessuali da una persona che sia vittima di prostituzione forzata (è la soluzione adottata nel Regno Unito con il Policing and Crime Act del 2009). Una simile tecnica d’intervento trova eco nella direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011, concernente «la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime», la quale invita specificamente gli Stati membri a impegnarsi per ridurre la “domanda” che è alla base del traffico di esseri umani, anche valutando la possibilità di prevedere come reato l’utilizzo di servizi che sono oggetto di sfruttamento, qualora l’agente sia a conoscenza che la persona è vittima di tratta (art. 18, paragrafo 4).

Nella versione più ricorrente e radicale, per converso, si sceglie di punire il cliente sic et simpliciter, ossia a prescindere dalle caratteristiche della persona che offre i servizi sessuali e dalla condizione di soggiogamento o di necessità in cui essa eventualmente si trovi. Si tratta del cosiddetto “modello nordico”, essendo stata una simile strategia adottata anzitutto dalla Svezia, sul finire degli anni ’90, e poi seguita da altri Paesi del Nord Europa, ai quali si è peraltro recentemente aggiunta anche la Francia.

Il ricorso a un simile modello è visto, altresì, con favore nella Risoluzione del Parlamento europeo del 26 febbraio 2014, su «sfruttamento sessuale e prostituzione, e loro conseguenze per la parità di genere» (2013/2103 – INI, punto 29).

È di sicuro interesse, agli odierni fini, rilevare come tanto le soluzioni legislative ispirate al modello “abolizionista”, quanto quelle ispirate al modello “neo-proibizionista” nella versione più radicale, che espande ulteriormente, tramite la punizione del cliente, il perimetro della “terra bruciata” attorno all’attività della persona dedita alla prostituzione, siano state ritenute costituzionalmente compatibili dai Tribunali costituzionali di altri Paesi europei, in relazione a censure in buona misura sovrapponibili a quelle oggi rimesse all’esame di questa Corte.

Riguardo alle soluzioni del primo tipo, si è pronunciato segnatamente in tal senso il Tribunale costituzionale del Portogallo (Paese la cui legislazione rispecchia anch’essa il modello “abolizionista”), il quale, con la sentenza n. 641/2016 del 21 novembre 2016, ha negato che possa ritenersi costituzionalmente illegittima la norma incriminatrice del cosiddetto lenocinio semplice (art. 169, comma 1, del codice penale portoghese, come novellato), costituito dal fatto di chi, «professionalmente o comunque a fine di lucro, fomenta, favorisce o facilita l’esercizio della prostituzione da parte di altra persona».

Quanto al secondo modello, il Consiglio costituzionale francese ha parimente escluso, con la recente decisione n. 2018-761 QPC del 1° febbraio 2019, la denunciata incostituzionalità dell’art. 611-1 del codice penale francese, aggiunto dalla legge 13 aprile 2016, n. 2016-444, che sottopone a pena (pecuniaria) il cliente della persona che si prostituisce, a prescindere dal carattere forzato, o no, dell’attività di quest’ultima.

La prostituzione volontaria, non dovuta, cioè, né a coazione altrui, né a uno stato di bisogno della persona che la esercita spesso è una prostituzione tendenzialmente “di élite” e rivolta a clienti facoltosi, incarnata emblematicamente dalla figura della cosiddetta escort (accompagnatrice retribuita, disponibile anche a prestazioni sessuali).

La scelta di prostituirsi, ove libera e volontaria, potrebbe rappresentare una modalità di espressione della «libertà di autodeterminazione sessuale», qualificabile come diritto inviolabile della persona umana garantito dall’art. 2 Cost.(?)

L’art. 2 Cost. impegna la Repubblica italiana a riconoscere e garantire i «diritti inviolabili dell’uomo», sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. La previsione si presenta strettamente connessa a quella del successivo art. 3, secondo comma, che, al fine di rendere effettivi tali diritti, impegna altresì la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono «il pieno sviluppo della persona umana».

L’art. 2 Cost. collega, dunque, i diritti inviolabili al valore della persona e al principio di solidarietà. I diritti di libertà sono riconosciuti, cioè, dalla Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona e tale valore fa riferimento non all’individuo isolato, ma a una persona titolare di diritti e doveri e, come tale, inserita in relazioni sociali. Il costituzionalismo contemporaneo è, del resto, ispirato all’idea che l’ordinamento non deve limitarsi a garantire i diritti costituzionali ma deve adoprarsi per il loro sviluppo. Di qui una concezione dell’individuo come persona cui spetta una “libertà di” e non soltanto una “libertà da”.

È vero che con la sentenza n. 561 del 1987 la Corte Cost. ha ritenuto che il catalogo dei diritti inviolabili evocati dall’art. 2 Cost. includa la «libertà sessuale». Si è rilevato, infatti, che la sessualità rappresenta «uno degli essenziali modi di espressione della persona umana», con la conseguenza che «il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire». Ma l’affermazione è stata resa in rapporto a una fattispecie nella quale veniva in rilievo il profilo negativo di tale libertà, ossia il diritto ad opporsi a “intrusioni” altrui non volute nella propria sfera sessuale, e con riguardo alle pretese risarcitorie scaturenti dalla violazione di tale diritto. Si lamentava, infatti, nell’occasione, che la disciplina sul trattamento pensionistico di guerra escludesse la risarcibilità dei danni non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici.

È indubbio, peraltro, che l’asserto dianzi riprodotto ben può ritenersi riferibile anche al profilo positivo della libertà in questione, il quale implica che ciascun individuo possa fare libero uso della sessualità come mezzo di esplicazione della propria personalità, s’intende, nel limite del rispetto dei diritti e delle libertà altrui.

Se è il collegamento con lo sviluppo della persona a qualificare la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost., non è possibile ritenere che la prostituzione volontaria partecipi della natura di diritto inviolabile, il cui esercizio dovrebbe essere, a questa stregua, non solo non ostacolato, ma addirittura, all’occorrenza, agevolato dalla Repubblica, sulla base del mero rilievo che essa coinvolge la sfera sessuale di chi la esercita.

L’offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma costituisce, molto più semplicemente, una particolare forma di attività economica. La sessualità dell’individuo non è altro, in questo caso, che un mezzo per conseguire un profitto: una “prestazione di servizio” inserita nel quadro di uno scambio sinallagmatico. E come «prestazione di servizi retribuita», rientrante nel novero delle «attività economiche» svolte in qualità di lavoro autonomo, la prostituzione è stata in effetti qualificata tanto dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nella sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e altri, citata dalle parti costituite; quanto dalla Corte di cassazione, nelle pronunce he hanno ritenuto assoggettabili ad imposta i proventi di tale attività (Cass., Sez. V, sentenze 4 novembre 2016, n. 22413; 27 luglio 2016, n. 15596; 13 maggio 2011, n. 10578; 1° ottobre 2010, n. 20528). Ammesso pure che vi siano persone che considerano personalmente gratificante esercitare la prostituzione, questo non cambia la sostanza delle cose.

Al riguardo, non gioverebbe obiettare che un diritto fondamentale resta tale anche se esercitato dietro corrispettivo. L’argomento prova troppo: ragionando in questi termini, qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo verrebbe a costituire un diritto inviolabile della persona, nella misura in cui richiede l’esercizio di una qualche libertà costituzionalmente garantita.

Corte Costituzionale sentenza n. 141 del 2019

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