Cannabis light. Principi di merito e di legalità
La sentenza della Corte di cassazione, Sez. U, n. 30475 del 30/05/2019, ha escluso in maniera perentoria e senza possibilità di dubbi la applicazione della L. n. 242 del 2016 al commercio della cd. “cannabis light“;
La cd. cannabis light non può in alcun modo essere oggetto di commercio trattandosi di sostanza stupefacente inserita a pieno titolo nella tabella II allegata al D.P.R. n. 309 del 1990;
Non trova applicazione, pertanto, la soglia di tollerabilità dello 0,5% di principio attivo applicabile esclusivamente ai limitati fini della L. n. 242 del 2016.
La L. n 242 del 2006 reca norme per il sostegno e la promozione della Coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonchè come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione (art. 1, comma 1). Il sostegno e la promozione riguardano la coltura della canapa finalizzata: a) alla coltivazione e alla trasformazione; b) all’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali; c) allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale; d) alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; e) alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca. Di conseguenza, la coltivazione delle varietà di canapa di cui all’art. 1, comma 2, può essere effettuata senza alcuna autorizzazione (art. 2, comma 1). Dalla canapa in tal modo coltivata è possibile ottenere: a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; c) materiale destinato alla pratica del sovescio; d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonchè di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; g) coltivazioni destinate al florovivaismo (art. 2, comma 2). La legge prevede anche controlli sulle attività consentite (art. 4). Quando, all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni della legge (art. 4, comma 5).
All’indomani della promulgazione della legge si sono formati, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, due opposti orientamenti.
Secondo un primo orientamento la legge non consente la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della canapa (hashish e marijuana), sul presupposto che la novella disciplina esclusivamente la coltivazione della canapa per i fini commerciali elencati dalla L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 3, tra i quali non rientra là commercializzazione dei prodotti costituiti dalle inflorescenze e dalla resina. In tale ambito ricostruttivo, i valori di tolleranza di THC consentiti dall’art. 4, comma 5 legge citata, si riferiscono solo alla percentuale di principio attivo sulle piante in coltivazione e non al prodotto oggetto di commercio. La cannabis sativa L. presenta intrinseca natura di sostanza stupefacente ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14 posto che l’allegata Tabella II include la cannabis in tutte le sue varianti e forme di presentazione. Secondo tale orientamento, la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione di cannabis sativa L, sempre che presentino un effetto drogante, integra tuttora gli estremi del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.
Secondo un diverso orientamento, nella filiera agroalimentare della canapa che la novella del 2016 intende promuovere, rientra la commercializzazione dei relativi derivati. Dalla liceità della coltivazione discende, pertanto, la liceità dei prodotti che contengano una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6 per cento. Deve quindi escludersi, ove le inflorescenze Provengano da coltivazioni lecite ex lege n. 242 del 2016, la responsabilità penale sia dell’agricoltore che del commerciante.
Con sentenza Sez. U, n. 30475 del 30/05/2019, la Corte di cassazione, nel disattendere quest’ultima opzione ermeneutica, ha affermato il seguente principio di diritto: “In tema di stupefacenti, la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, integrano il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dalla L. 2 dicembre 2016, n. 242, art. 4, commi 5 e 7, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività“.
Spiega in motivazione la Corte che “la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, secondo la testuale elencazione contenuta nella tabella II, in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell’ambito dell’art. 73, commi 1 e 4 T.U. stup. (…) la novella non ha effettuato alcuna modifica al dettato del T.U. stup., neppure nell’ambito delle disposizioni che inseriscono la cannabis e i prodotti da essa ottenuti nel delineato sistema tabellare (…) la commercializzazione dei derivati della predetta coltivazione, non compresi nel richiamato elenco, continua a essere sottoposta alla disciplina del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, cit.) (…) erroneamente le richiamate percentuali di THC sono state valorizzate, al fine di affermare la liceità dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. – e la loro commercializzazione – ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 ovvero allo 0,2 per cento (…) ogni condotta di cessione o di commercializzazione di categorie di prodotti, ricavati dalla coltivazione agroindustriale della cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, diversi da quelli tassativamente indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, da un lato è estranea dall’ambito di operatività della predetta legge, dall’altro integra una attività illecita, secondo la generale disciplina contenuta nel T.U. stup.. Segnatamente, le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nella L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 2 e la realizzazione di prodotti diversi da quelli inseriti nell’elenco di cui alla L. n. 242 cit., art. 2, comma 2, risultano penalmente rilevanti, ai sensi dell’art. 73, commi 1 e 4 T.U. stup., che sanziona, oltre alla coltivazione – con l’eccezione di cui all’art. 26, comma 2, sopra ripetutamente evidenziata – la produzione, l’estrazione, la vendita, la cessione, la distribuzione, il commercio, la consegna, la detenzione e altre attività di messa in circolazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla Tabella II, prevista dall’art. 14. Sul punto, deve sottolinearsi che non assume alcuna rilevanza, al fine di escludere la illiceità della condotta, il mancato superamento delle percentuali di THC di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, atteso che tali valori riguardano esclusivamente il contenuto consentito di THC presente nella coltivazione – e non nei derivati – nell’ambito della specifica attività di coltivazione agroindustriale della canapa, per gli usi consentiti, delineata dalla stessa novella, anche in riferimento alla erogazione dei contributi al coltivatore, secondo la disciplina sovranazionale già sopra ricordata. Pertanto, la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4 T.U. stup., atteso che la tabella II richiama testualmente tali derivati della cannabis, senza effettuare alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto. Ed il fatto che la norma incriminatrice di cui all’art. 73, commi 1 e 4 T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dalla Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. La norma incriminatrice, infatti, riguarda la commercializzazione dei derivati della coltivazione – foglie, inflorescenze, olio e resina – ove si concentra il tetraidrocannabinolo; diversamente, la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di THC, proveniente da semente autorizzata, pone dei limiti soglia rispetto alla concentrazione presente nella coltura medesima, rilevanti anche ai fini della erogazione dei benefici economici per il coltivatore ed elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, inflorescenze, olio e resina (…) 3) la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7 Legge del 2016. L’art. 73, cit., incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente, che informa gli artt. 13 e 14 T.U. stup.. Pertanto, impiegando il lessico corrente, deve rilevarsi che la cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti – diversi da quelli espressamente consentiti dalla L. n. 242 del 2016 – derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis light, integra gli estremi del reato ex art. 73 T.U. stup.. L’effettuata ricostruzione del quadro normativo di riferimento conduce ad affermare che la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., che pure si caratterizza per il basso contenuto di THC, vale ad integrare il tipo legale individuato dalle norme incriminatrici (…) Le Sezioni Unite hanno rilevato che, rispetto al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, non rileva il superamento della dose media giornaliera ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente (Sez. U, n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856). Successivamente, analizzando la specifica questione afferente alla eventuale inoffensività della cosiddetta coltivazione domestica di cannabis, le Sezioni Unite hanno affermato che è indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920). (…) osservano le Sezioni Unite che ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante (Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, dep. 2016, Mele, Rv. 265976; si veda anche: Sez. 3, n. 47670 del 09/10/2014, Aiman, Rv. 261160, ove si è osservato che il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 è configurabile anche in relazione a dosi inferiori a quella media singola di cui al D.M. 11 aprile 2006, con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di sostanze stupefacenti talmente minimi da non poter modificare, neppure in maniera trascurabile, l’assetto neuropsichico dell’utilizzatore; e Sez. 6, n. 8393 del 22/01/2013, Cecconi, Rv. 25485701, ove si è affermato che ai fini della configurabilità del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante) (…) Come sopra chiarito, secondo il vigente quadro normativo, l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., infatti, integrano la fattispecie incriminatrice D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73. Ciò nondimeno, si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. Tanto si afferma, alla luce del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, che, come detto, opera anche sul piano concreto, di talchè occorre verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione“.
Non sembra revocabile in dubbio, pertanto, che il commercio o anche solo la messa in vendita di cannabis costituisca reato a tutti gli effetti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4. Chè anzi, rispetto all’oggetto materiale della condotta, non ha senso alcuno definire la sostanza come “light” alla luce della quantità di principio attivo in essa contenuto. Deve essere perciò esclusa in radice la tesi difensiva del cd. “doppio binario” (lecito/illecito), a seconda del superamento o meno della soglia dello 0,5% di principio attivo che non ha alcun aggancio normativo; la detenzione per la vendita, la messa in commercio e la vendita di cannabis (foglie, infiorescenza, olio, resina) sono tutte condotte alternativamente previste e sanzionate come reato dal D.P.R. n. 309, cit., art. 73, commi 1 e 4.
Corte di Cassazione n. 14735/2020