Ai sensi dell’art. 76, comma 4-ter, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 “La persona offesa dai reati di cui agli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di cui agli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale, può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal presente decreto“.
Ed invero, già da alcuni anni questa Suprema Corte ha affermato il diritto della persona offesa da uno dei reati indicati nella norma a fruire del patrocinio a spese dello Stato per il solo fatto di rivestire tale qualifica, a prescindere dalle proprie condizioni di reddito, che, dunque, non devono neanche essere oggetto di dichiarazione o attestazione ai sensi del successivo art. 79, comma 1, lettera c), del D.P.R. n. 115 del 2002 (così Cass., Sez. 4, n. 13497 del 15/02/2017; conf. Sez. 4, n. 52822 del 10/10/2018).
Tale lettura – si è sottolineato – è imposta dalla ratio della norma, posto che la finalità della stessa appare essere quella di assicurare alle vittime di quei reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità dell’assistenza legale.
A fugare ogni possibile dubbio interpretativo è intervenuta poi la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2021 (udienza del 3/12/2020, deposito dell’11/1/2021) dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati indicati nella norma medesima, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza del 13 dicembre 2019.
Il giudice rimettente – che aveva fondato il proprio interesse a rivolgersi alla Consulta proprio nella non condivisione dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, assurto al rango di diritto vivente – aveva denunciato il contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 della Costituzione, in quanto istituisce un automatismo legislativo di ammissione al beneficio al solo verificarsi del presupposto di assumere la veste di persona offesa di uno dei reati indicati dalla medesima norma, con esclusione di qualsiasi spazio di apprezzamento e discrezionalità valutativa del giudice, disciplinando in modo identico situazioni del tutto eterogenee sotto il profilo economico; nonché con l’art. 24, comma 3, Cost., in quanto l’ammissione indiscriminata e automatica al beneficio di qualsiasi persona offesa da uno dei reati indicati porta a includere anche soggetti di eccezionali capacità economiche, a discapito della necessaria salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa in tema di giustizia.
I giudici delle leggi hanno ritenuto manifestamente infondate tali doglianze, in primis, ricordando come la giurisprudenza costituzionale abbia, in più occasioni, ricondotto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato nell’alveo della disciplina processuale (sentenza n. 81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019, sentenza n. 80 del 2020, in linea con la sentenza n. 47 del 2020 e ordinanza n. 3 del 2020).
Secondo la Corte costituzionale, la scelta effettuata con la disposizione in esame – che va, appunto, ricondotta nell’alveo della disciplina processuale – rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati.
Viene ricordato che nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni, è stato dato grande spazio a provvedimenti e misure tese a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori.
Di qui la volontà di approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti. Ed infatti, nel preambolo del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella legge n. 38 del 2009, che ha introdotto la disposizione in esame, si richiama “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei suddetti reati“.
Non diverse – si legge ancora nella sentenza 1/2021 della Corte costituzionale – sono le considerazioni sviluppate nel preambolo del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge n. 119 del 2013.
È evidente, dunque, che la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale, che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità. Valutazione che appare del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore.
A queste argomentazioni sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di accordare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato sganciandolo dal presupposto della non abbienza, va aggiunta per i giudici delle leggi la considerazione che nel nostro ordinamento sono presenti altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto l’ammissione a tale beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza. Viene ricordato, ad esempio, il precedente costituzionale con cui sì è affermato che la scelta di porre a carico dell’erario l’onorario e le spese spettanti all’avvocato e all’ausiliario del magistrato rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la peculiarità del procedimento di espulsione dello straniero e la necessità di non frapporre alcun ostacolo al perseguimento di questo fine (così l’ordinanza n. 439 del 2004). Valutazioni di analogo tenore possono, dunque, svolgersi per la disciplina di cui al censurato comma 4-ter.
La Corte costituzionale, peraltro, ha confutato anche il profilo di censura calibrato sull’automatismo del patrocinio a spese dello Stato quale presunzione assoluta, laddove il giudice a quo aveva segnalato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la presunzione legislativa è immune da censure di legittimità costituzionale e resiste al vaglio di ragionevolezza solo quando vi sia “solida rispondenza all’id quod plerumque accidit” (così tra le altre, sia pure relative a ipotesi decisamente distanti da quelle in esame, sentenza n. 191 del 2020) e che “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit” (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982). In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglierebbe tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.» (sentenza n. 253 del 2019).
Per i giudici delle leggi, tuttavia, il rimettente non coglie nel segno richiamando questa giurisprudenza, posto che nel caso in esame il beneficio non è legato ad una presunzione di non abbienza delle persone offese dai reati indicati dalla norma censurata e ha tutt’altre giustificazioni. La verifica della regola dell’id quod plerumque accidit dovrebbe, piuttosto, concernere la vulnerabilità delle persone offese dai reati presi in considerazione dal censurato comma 4-ter, in ordine alla cui sussistenza convergono significativi dati di esperienza e innumerevoli studi vittimologici.
Per quel che concerne, infine, la prospettata violazione dell’art. 24, comma 3 Cost., i giudici delle leggi si sono limitati ad evidenziare che il parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. Esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame.
Va dunque ribadito il principio, anche alla luce del dictum del giudice delle leggi, che in tema di ammissione al patrocino a spese dello Stato, ai sensi dell’art. 76, comma 4-ter, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, la persona offesa da uno dei reati ivi elencati può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dallo stesso articolo; ne consegue che la relativa istanza necessita esclusivamente dei requisiti di cui alle lettere a) e b) del comma primo dell’art. 79 del decreto e non anche dell’allegazione da parte dell’interessato, prevista dalla lettera c) del medesimo articolo, di una dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione.
Corte di Cassazione Sez. 4 n. 16272/2022