Pubblicità ingannevole
Danni patrimoniali e non patrimoniali
Il caso di specie è caratterizzato dai seguenti elementi:
a) l’attore, premesso di essere un fumatore abituale di sigarette con un normale contenuto di nicotina e condensato, di averne contratto patologie respiratorie e cardiovascolari e di non riuscire a smettere di fumare, sostiene di essere passato al consumo di sigarette pubblicizzate come del tipo “Light“, con un minor contenuto di nicotina e condensato, sulla presunzione che esse fossero meno nocive e pericolose;
b) tuttavia, nonostante il consumo di queste sigarette, le sue condizioni di salute, anziché migliorare, peggiorarono, essendo quasi raddoppiato il numero di sigarette da lui fumate;
c) egli era divenuto, pertanto, vittima di una pubblicità ingannevole, illusoria, insidiosa, artificiosa e fuorviante, produttrice di danni per la sua salute, nonché di ansia per il pericolo di rimanere affetto da cancro, con conseguente serio turbamento della sua qualità di vita;
d) di qui la domanda risarcitoria, nei confronti della società produttrice delle sigarette in questione,
connessa a danni patrimoniali (la restituzione del prezzo pagato per l’acquisto dei pacchetti di sigarette da lui fumati) e non patrimoniali.
I riferimenti normativi utilizzati dall’attore sono quelli di cui al D.Lgs. n. 74 del 1992, art. 5, coordinato con il D.P.R. n. 224 del 1998 sulla responsabilità del produttore.
Così riassunti i presupposti di fatto, nonché la pretesa esercitata, è possibile desumere che nella specie l’azione esercitata è quella aquiliana di cui all’art. 2043 c.c., con riferimento a danni patrimoniali e non patrimoniali, considerati tra questi ultimi sia il danno alla salute, sia il danno, più generale, “alla qualità della vita”. Significativo, in tal senso è il riferimento al D.Lgs. n. 74 del 1992, art. 5, a norma del quale “E’ considerata ingannevole la pubblicità che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, ometta di darne notizia in modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza“.
Al riguardo bisogna porre in evidenza come la disciplina comunitaria relativa ai consumatori, pur avendo all’origine lo scopo di proteggere il corretto funzionamento del mercato, si sia gradualmente orientata verso la protezione di specifici interessi del consumatore (in particolare la salute: si pensi alla direttiva comunitaria in materia di sicurezza dei prodotti e prodotti difettosi), fino ad individuarne i diritti e ad attribuire ad alcuni di essi natura fondamentale. Il messaggio ingannevole lede, appunto, il diritto del consumatore alla libera determinazione intorno alla scelta ed all’uso del prodotto, in altri termini “ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 21 Codice del consumo, comma 2,).
In alcuni casi, poi, siffatta pubblicità può incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente protetto e specificamente menzionato dal Codice del consumo tra i diritti fondamentali del consumatore.
Tant’è che “è considerata scorretta la pratica commerciale che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, omette di darne notizia in modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza” (art. 21 Codice del consumo, comma 3, al quale ha fatto riferimento l’Autorità Garante nel vietare l’utilizzo del termine “LIGHT“).
Al di fuori dei casi di danno alla salute, in cui la tutela è piena ed incomprimibile, e rispetto ai casi in cui sia lamentata anche una generica lesione del diritto all’autodeterminazione consumeristica, nonché il disagio conseguente alla scoperta di essere stato indotto a tenere una condotta pericolosa (il fumatore sostiene di avere fumato un maggior numero di sigarette “LIGHT” in base all’erroneo convincimento che esse fossero meno dannose per la salute), occorre procedere ad un’attenta selezione dei danni risarcibili, che tenga conto della gravità dell’offesa prodotta. Quanto al diritto all’autodeterminazione, esso può essere tratto dal Codice del consumo che, all’art. 2, riconosce come fondamentali i diritti del consumatore ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità, nonché all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà.
Quanto alla paura di ammalarsi, in dottrina è stato fatto riferimento al danno da pericolo già elaborato da queste Sezioni Unite, quando, a proposito del disastro di Seveso, è stato ritenuto risarcibile il danno morale soggettivo lamentato da coloro che avevano subito un turbamento psichico (non tradottosi in malattia) a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita (Cass. sez. un. 21 febbraio 2002, n. 2515). Tuttavia, non si può omettere di considerare che siffatta soluzione è stata accolta in un caso in cui il danno lamentato era posto in collegamento causale con un fatto costituente il reato di disastro colposo e, dunque, in riferimento all’art. 185 c.p. Sicché, rispetto a tale ultima categoria di danni (che la sentenza impugnata menziona genericamente come di tipo “esistenziale“) occorre tener conto delle conclusioni alle quali è recentemente pervenuta Cass. sez. un. 11 novembre 2008,
n. 26975, che ha identificato il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. come quello determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, composto in categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie. Danno tutelato in
via risarcitoria, in assenza di reato ed al di fuori dei casi determinati dalla legge, solo quando si verifichi la lesione di specifici diritti inviolabili della persona, ossia in presenza di un’ingiustizia costituzionalmente qualificata. Tenendo, dunque, conto dell’interesse leso e non del mero pregiudizio sofferto o della lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.
Nello svolgere l’indagine sopra prescritta, il giudice può anche servirsi delle presunzioni, nei limiti e nei modi in cui le ammette il codice di rito, ed, una volta individuato il danno, potrà procedere equitativamente alla liquidazione del relativo risarcimento, purché essa non sia simbolica o affatto
svincolata dagli elementi di fatto emersi.
Un’ultima annotazione riguarda la valutazione dell’esigibilità di un diverso comportamento da parte della vittima, ossia l’applicabilità del disposto dell’art. 1227 c.c., comma 2, che esclude il risarcimento per i danni che quella avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. Ciò nella considerazione che l’attore sostiene di essere stato fumatore di sigarette a pieno contenuto di nicotina e condensato prima di passare al fumo di sigarette “LIGHT“, di essere stato già affetto da malattie respiratorie e cardiovascolari connesse al consumo di sigarette e di essere passato al consumo di quelle da lui ritenute meno dannose per l’impossibilità di smettere di fumare.
In conclusione, da quanto premesso è possibile enucleare i seguenti principi:
1) L’apposizione, sulla confezione di un prodotto, di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole (nella specie il segno descrittivo “LIGHT” sul pacchetto di sigarette) può essere considerato come fatto produttivo di danno ingiusto, obbligando colui che l’ha commesso al risarcimento del danno, indipendentemente dall’esistenza di una specifica disposizione o di un provvedimento che vieti l’espressione impiegata.
2) Il consumatore che lamenti di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole ed agisca, ex art. 2043 c.c., per il relativo risarcimento, non assolve al suo onere probatorio dimostrando la sola ingannevolezza del messaggio, ma è tenuto a provare l’esistenza del danno, il nesso di causalità tra pubblicità e danno, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, concretandosi essa nella prevedibilità che dalla diffusione di un determinato messaggio sarebbero derivate le menzionate conseguenze dannose.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, sentenza n. 794 del 2009