Risarcimento del danno non patrimoniale alla madre e ai fratelli che vivono lontano
Premesso che il risarcimento del danno non patrimoniale ha lo scopo di compensare la vittima del dolore sofferto con utilità sostitutive è ammissibile il risarcimento del danno non patrimoniale alla madre e ai fratelli se il defunto vive lontano da loro?
Occorre stabilire in iure se il risarcimento possa variare in funzione della residenza della vittima.
Nel caso di specie la Corte di merito ha rigettato la domanda proposta dalla madre e dai fratelli della vittima affermando che la vittima si era trasferita dalla Romania in Italia sin dal 1992, e “non vi è prova alcuna del permanere di rapporti con la famiglia di origine“. Così giudicando, la Corte di merito ha addossato ad una madre l’onere di provare di avere sofferto per la morte d’un figlio, ed altrettanto ha fatto per i fratelli.
Tale statuizione non è conforme a diritto.
In linea generale, non v’è dubbio che spetti alla vittima d’un fatto illecito dimostrare i fatti costitutivi della sua pretesa, e di conseguenza l’esistenza del danno.
Tale prova tuttavia può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, ovvero invocando massime di esperienza e l’id quod plerumque accidit.
Nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza è, di norma, connaturale all’essere umano.
Naturalmente si tratterà pur sempre d’una praesumptio hominis, con la conseguente possibilità per il convenuto di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.
Ne consegue che, nel caso di specie, non spettava alla madre ed ai fratelli della vittima provare di avere sofferto per la morte del rispettivo figlio e fratello, ma sarebbe stato onere dei convenuti provare che, nonostante il rapporto di parentela, la morte ha lasciato indifferente la madre ed i fratelli della vittima.
La semplice lontananza, tuttavia, non è una circostanza di per sé idonea a far presumere l’indifferenza d’una madre alla morte del figlio.
Lo insegna la psicologia (dalla quale apprendiamo che la lontananza, in determinati casi, rafforza i vincoli affettivi, a misura che la mancanza della persona cara acuisce il desiderio di vederla); lo testimonia la storia (qui gli esempi sono sterminati: dal carteggio di Abelardo ed Eloisa alle lettere dei condannati a morte della Resistenza); e lo attesta sinanche il mito: quello di Penelope ed Ulisse non sarebbe certo sopravvissuto intatto per ventotto secoli, se non rispondesse ad una costante dell’animo umano la conservazione degli affetti più cari anche a distanza di tempo e di spazio.
La Corte di merito ha dunque effettivamente violato sia l’art. 2727 c.c., perché ha negato rilievo ad un fatto di per sé sufficiente a dimostrare l’esistenza del danno (il rapporto di filiazione e di fratellanza); sia le regole sul riparto dell’onere della prova, addossando agli attori l’onere di provare l’assenza di fatti impeditivi della propria pretesa.
Deve essere affermato il seguente principio di diritto:
“L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo“.
Corte di Cassazione civile, Sez. III, Ordinanza 15 febbraio 2018, n. 3767